mercoledì 7 settembre 2022

CALABRIA E SICILIA EBRAICHE: DA ANTICHE RADICI A STORICI E UNICI LEGAMI

Immagine da Miniatura tratta dall'Amtliche Berner Chronik di Diebold Schilling, 1483 
(
Burgerbibliothek Bern, Mss.h.h.I.1, p. 44).

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L’antigiudaismo di Stato nelle Calabrie

PARAGR. 1  DAL

CAPITOLO PRIMO
IL POPOLAMENTO EBRAICO DELL’ITALIA MERIDIONALE BIZANTINA

DEL VOLUME DI 

Stefano Palmieri
CRISTIANI ED EBREI
NELL’ITALIA MERIDIONALE
TRA ANTICHITÀ E MEDIOEVO

UNIVERSITÀ DI NAPOLI L’ORIENTALE - DIPARTIMENTO ASIA, AFRICA E MEDITERRANEO - CENTRO DI STUDI EBRAICI
 
Unior press

IL TORCOLIERE • Officine Grafico-Editoriali d’Ateneo Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Prodotto nel mese di dicembre 2021 
ISBN: 978-88-6719-222-9
 
PAGINE 41 - 55

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La ‘restaurazione’ di Giustiniano I, sancita in Italia dalla promulgazione della Prammatica del 13 agosto 554, comportò il ripristino della Prefettura d’Italia, priva, tuttavia, delle isole e dei territori d’Oltremare, e all’interno di
essa della provincia di Lucania et Britii, corrispondente, grosso modo, all’antica regio tertia d’età augustea.

La successiva irruzione dei Longobardi nel Mezzogiorno implicò tra VI e VII secolo la perdita della Lucania e la riduzione dell’antica terra dei Brittii ai soli territori posti a Sud della valle del Crati, divenuti, infatti, Cosenza, Laino e Cassano allo Ionio capoluoghi di gastaldati. La ‘migrazione’ del nome Calabria avvenne successivamente, a seguito della perdita, con l’esclusione dei soli porti di Otranto e Gallipoli, dopo il 671, dell’antica provincia di Calabria, tradizionalmente unita all’Apulia. Queste due città portuali furono così aggregate amministrativamente a un nuovo ducato costituito dai loro territori e da quel che rimaneva a Costantinopoli dell’antica Brittia. Pasquale Corsi ha invece ricondotto questo mutamento alle misure prese da Costante II in Italia tra il 663 e il 668: l’imperatore avrebbe riunito questi stessi possedimenti rimasti in mano bizantina dando ad essi la denominazione complessiva di Calabria. Tuttavia, secondo Michelangelo Schipa e André Guillou la riforma sarebbe anteriore al 653, quando la terra dei Brittii venne aggregata alla Calabria salentina per costituire un nuovo ducato. Comunque sia, post 711 anche le terre più estreme della penisola salentina finirono in mani longobarde e il ducato di Calabria si identificò, per tanto, con le sole terre poste a Sud del Crati; fu questa da allora la denominazione territoriale che assunsero definitivamente, avendola estesa poi in un secondo tempo ai territori della Calabria superiore. In seguito al 758, quando furono recuperati i due porti salentini, venne inoltre costituito un effimero ducato di Otranto.

Con il regno di Giustiniano II era stato costituito nel frattempo tra il 692 e il 695 il thema di Sicilia, alle cui dipendenze fu posto il ducato di Calabria, fino ad allora dipendente dall’Esarcato d’Italia. Questa circoscrizione, dopo l’invasione islamica della Sicilia e la ‘riconquista’ macedone, che con la conquista di Taranto dell’880 prima e la campagna calabrese di Niceforo Foca il Vecchio dell’885-86 poi ricomponeva la continuità territoriale delle province imperiali, certamente tra il 938 e il 956, se non addirittura come taluni vogliono già ai primi del X sec., divenne a sua volta un thema. Nell’891/92 era stato, invece, istituito un tema di Langobardia, comprendente i territori pugliesi, nel quale furono incorporati Otranto e Gallipoli, a cui si sovrappone intorno al 970 il Catepanato d’Italia. Un altro tema Fu quello di Lucania, la cui costituzione, se è dubbia nel X secolo, è, invece, certa negli anni compresi tra il 1035 e il 1042, benché effimera, dal momento che scompare prima del 1051. Pur mantenendo in linea generale queste divisioni amministrative, occasionalmente, e in congiunture particolarmente critiche, queste stesse province potevano essere aggregate in unione personale sotto il comando di un unico ufficiale.

In Calabria, allora, la regio dei Brittii tardoantica, l’antico ducato bizantino, cioè, poi trasformato in thema, abitato in prevalenza da popolazione di lingua greca che afferiva al patriarcato di Costantinopoli, abbiamo per l’Alto Medioevo testimonianze del popolamento giudaico rapsodiche, ma solo apparentemente contraddittorie.

Oreste Dito, collegando le poche fonti disponibili con le evidenze toponomastiche, nonché notando l’assenza di insediamenti ebraici sulla costa tirrenica di quella regione, giunse alla conclusione che gli ebrei avevano abitato nei primi secoli del Medio Evo soltanto la costa ionica, lungo la via costiera di collegamento tra Reggio di Calabria e Taranto.

Un’area, dunque, che metteva in relazione le terre calabre con i porti pugliesi, e attraverso essi con Costantinopoli e gli altri scali del Vicino Oriente, e dove più intensa era la circolazione di merci e uomini.

Ovviamente Oreste Dito ignorava la stele funeraria di un samaritano, Antioco, del III sec. rinvenuta a Vibo Valentia.

Tuttavia, questa presenza isolata, così antica e per giunta samaritana, rapportabile, dunque, a specifici ambiti di circolazione di un gruppo di scismatici, non modifica la tesi dello studioso calabrese, che concerne comunque un’età posteriore, altomedievale.

Infine, oltre alla via di terra evidenziata da Oreste Dito, dobbiamo tener conto anche dei collegamenti marittimi lungo la medesima costa: fra i vari esempi che potremmo fare, vale ricordare qui la Vita di s. Luca vescovo di Catania, nella quale è più volte attestata la rotta Catania-Costantinopoli, con scalo a Calamizzi di Reggio, Crotone e Otranto, nelle due direzioni.

In effetti, le scoperte archeologiche hanno dato ragione a Oreste Dito: se è dubbio che la costituzione di Teodosio I del 22 settembre 384 sul divieto impartito agli ebrei di possedere schiavi cristiani possa riferirsi proprio ai giudei di Reggio di Calabria, è certo invece che in quella città c’era una sinagoga nel IV secolo, attestata da un’epigrafe; da Leucopetra, la prima statio della litoranea ionica, oggi Lazzàro di Motta San Giovanni (RC), viene una lucerna del V secolo decorata con una menorah; a Bova Marina sono stati rinvenuti i resti di una sinagoga con pavimenti musivi di IV-V secolo,  mentre da Roccelletta di Borgia presso Catanzaro provengono due frammenti di anfore con bolli giudaici del V secolo. Con queste testimonianze non andiamo oltre il V secolo e solo a partire dal X troviamo nuovamente memoria di ebrei, ma più a Settentrione, nei territori di Bisignano e Rossano, e comunque ancora lungo lo stesso asse di popolamento individuato da Oreste Dito. Non è da credere che in questi cinque secoli gli ebrei siano scomparsi del tutto dai
territori calabresi più meridionali: probabilmente la loro presenza è stata tanto esigua da non lasciare testimonianze. D’altra parte, in età normanna è di nuovo attestata una comunità a Reggio di Calabria di un certo rilievo.

Non sappiamo se si sia costituita in quegli anni, in un nuovo contesto politico e istituzionale, oppure se la cronologia di essa sia più antica,  ma di certo la nuova congiuntura ha contribuito all’incremento di questa comunità, condizionando così la geografia del popolamento giudaico. Con molta probabilità il grosso degli ebrei ha subìto tutte le traversie della popolazione calabrese più meridionale, interessata da un forte depauperamento demografico e da flussi migratori verso le aree più sicure e meglio protette poste a settentrione, immediatamente al di sotto cioè del confine con i Longobardi, oppure si spostò in quell’area dopo la riconquista bizantina del IX secolo.

La fonte con maggiori informazioni sugli ebrei delle Calabrie è la Vita di s. Nilo di Rossano.

Il Bios è stato scritto a Grottaferrata una ventina d’anni dopo la morte del Santo,avvenuta il 26 settembre del 1004, da un suo discepolo di origini calabresi, il quale ha rielaborato la tradizione orale raccolta nel monastero, probabilmente gli stessi ricordi del suo anziano maestro e forse anche quelli di una sua lontana gioventù calabrese. Benché questa fonte agiografica non si fondi su testimonianze autoptiche dell’autore, i personaggi citati sono realmente esistiti e verisimili sono in essa sia i riscontri biografici del santo, sia quelli storici e topografici. Inoltre, la Vita non solo ci è utile come fonte sulla storia degli ebrei calabresi, ma lo è anche
per comprendere i rapporti tra cristiani ed ebrei, almeno dal punto di vista di un monaco italo-greco.

A Rossano era attivo al tempo di s. Nilo, e probabilmente fin dal 940, Shabbetay bar Abraham Donnolo, il famoso medico e astronomo ebreo, autore di importanti trattati di astronomia e farmacologia. Shabbetay era nato a Oria intorno al 913 e aveva sofferto anch’egli per le sciagure del sacco saraceno del 4 luglio del 925: tra i dieci anziani, i più ragguardevoli esponenti della comunità, messi a morte dai predoni c’era il suo maestro e un altro rabbino suo parente; la sua famiglia, ridotta in schiavitù, fu trascinata a Taranto, che era stata, intanto, presa tra il 29 novembre e il 19 dicembre del 926, e successivamente deportata prima a Palermo e poi in Africa; Shabbetay, invece, allora dodicenne, rimase a Taranto e qui fu riscattato dai suoi parenti.

Successivamente si mosse tra la Puglia e la Calabria bizantine, luoghi dove si formò, studiò su una vasta letteratura scientifica orientale — oltre a quella ebraica egli stesso ricorda le opere di Bizantini, Ismaeliti, Babilonesi e Indiani, che lesse e trascrisse in greco, oltre a discutere con sapienti gentili greci e babilonesi — ed esercitò la sua professione.

Proprio come medico lo vediamo dunque attivo a Rossano e al capezzale di personaggi ragguardevoli: lo stesso Nilo, al quale offrì invano i suoi servigi,  e il giudice imperiale d’Italia e Calabria Euprassio, afflitto da un’incurabile e devastante malattia, del quale il medico assistette alla miracolosa conversione avvenuta tra il 965 e il 970, che lo impressionò fortemente, come egli stesso ricorda nelle sue note autobiografiche.

Proprio i rapporti con Nilo sono per noi particolarmente illuminanti: il santo monaco respinse le profferte di  aiuto del medico, accorso al suo capezzale, che gli offriva un farmaco, sia per ragioni religiose — è sulla Provvidenza divina che bisogna fare affidamento e non sul sapere degli uomini — sia per un certo qual opportunismo.

Nilo, infatti, temeva che una sua eventuale guarigione dovuta a un farmaco somministrato da un medico ebreo avrebbe avuto un’eco notevole e condizionato fortemente i cristiani più semplici e ingenui, i quali sarebbero stati così maggiormente attratti dalla già altrimenti nota e celebrata sapienza dell’Ebreo, e, forse, avrebbe provocato nei più sprovveduti dubbi tali da compromettere la saldezza della loro fede.

Un secondo incontro è più articolato e complesso, ma probabilmente è solo un’invenzione letteraria:

Shabbetay, insieme con un suo correligionario, si reca all’eremo di Nilo e gli chiede di parlare dell’Onnipotente; probabilmente è del dogma dell’incarnazione che i due volevano discutere — l’affermazione della natura divina del Cristo è per gli ebrei una bestemmia sacrilega — e, conseguentemente, del mistero della Trinità; ma Nilo propone loro di prendere i libri dei Profeti e il Deuteronomio e ritirarsi in meditazione, restando in silenzio per tanti giorni quanti Mosè rimase sul monte Sinai, per poi avviare subito dopo la discussione; i due ebrei declinarono l’invito per paura delle reazioni della loro comunità, temendo di essere scacciati dalla sinagoga e lapidati a causa della familiarità con il santo monaco.

Non ostante i luoghi topici della Vita, va riconosciuta a essa una notevole originalità nel panorama della letteratura agiografica bizantina. Come ha dimostrato Vera von Falkenhausen, in questa fonte non si narra di un oscuro ebreo che si converte o, al contrario, è fulminato dall’ira divina, ma di uno scienziato noto, quale era Shabbetay, una ben precisa personalità, che nella Vita è per giunta circonfuso da grande rispetto.

E questa fama, va aggiunto, potrebbe essere anche un riflesso dell’importanza della comunità ebraica rossanese in questo torno di anni e della familiarità e intimità di rapporti con i cristiani della città calabrese, oltre che con i vertici della società, come suggerisce l’episodio dell’agonia di Euprassio.

Un altro luogo della Vita riguarda i rapporti con gli ebrei ed è il notissimo episodio del processo intentato per l’omicidio dell’ebreo avvenuto nel territorio del castello di Bisignano. Un ebreo di ritorno dal mercato fu aggredito in un luogo isolato; dopo averlo ucciso, l’assassino s’impossessò dell’asino di questi con tutto il carico. Non riuscendo a catturare l’omicida, il giudice del luogo imprigionò il suocero del ladro e lo consegnò agli ebrei, affinché lo crocifiggessero. I parenti del condannato si rivolsero allora a Nilo per salvare il congiunto; il santo monaco scrisse al giudice, ricordandogli che in base alla legge per ogni cristiano ucciso dovevano morire sette ebrei e dunque per crocifiggere il condannato si sarebbero dovuti condannare alla pena capitale altri sei ebrei, oppure, in alternativa, lo stesso giudice avrebbe potuto accettare in cambio del condannato la vita del monaco latore della missiva, definito dal santo un nobile delle principali famiglie di Rossano, restituendo in tal modo ai propri affetti il poveretto ingiustamente condannato a morte.

Il giudice non riuscì a obiettare nulla alle argomentazioni del santo monaco e liberò il prigioniero, lasciando così di fatto impunito l’omicidio.

Certamente su questa narrazione hanno avuto un peso enorme, i topoi letterari antigiudaici, sopratutto se pensiamo che la Vita è stata scritta nell’XI secolo a Grottaferrata e ciò giustificherebbe il vocabolario dell’agiografo pesantemente antigiudaico.

Come è stato già notato tutta la vicenda del processo e, sopra tutto, la curiosa condanna alla crocifissione, del tutto improbabile nell’ordinamento giuridico bizantino, potrebbe essere frutto del condizionamento di quanto a Roma era avvenuto intorno al 1021, al pari delle espressioni usate; anche se andrebbe sottolineato che il vocabolario antigiudaico è in linea con la tradizione bizantina.

Ciò non ostante, possiamo cogliere alcune peculiarità che ci riconducono di nuovo alla Calabria del X secolo e qualche tratto specifico della condizione degli ebrei nei territori posti sotto la sovranità bizantina.
Il fatto che Rossano sia diventata il capoluogo dell’amministrazione bizantina a partire dalla fine del IX secolo, per ragioni strategiche (grazie alla posizione di fortezza imprendibile per l’orografia dei luoghi e le fortificazioni), in una Calabria flagellata dalle incursioni saracene, nella quale Reggio era ormai troppo esposta ai saccheggi, fa sì che la comunità giudaica si sia ingrandita — vuoi per le difficoltà esistenziali di chi abitava le terre più meridionali, vuoi per le nuove prospettive economiche — e operasse in essa un personaggio notevole quale Shabbetay, al punto da destare qualche preoccupazione nel santo monaco per via dell’ascendente del bravo medico sui cristiani.

In più, oltre che per la pratica della medicina, gli ebrei paiono segnalarsi qui anche per le attività commerciali.

Non è chiaro se l’ebreo assassinato fosse di Bisignano, oppure rientrasse dal mercato di quel centro in direzione di Rossano e, dunque, i suoi parenti si fossero rivolti al giudice del castello per motivi di competenza territoriale, di certo non doveva trasportare generi d’infimo valore, se fu ucciso per essere depredato del carico. Probabilmente era una di quelle figure di commercianti che svolgevano un loro ruolo all’interno di un ben determinato ambito territoriale, muovendosi e trafficando tra un mercato cittadino e l’altro.

Non sappiamo se già in età bizantina fosse attiva una tintoria Iudeorum;  essa è attestata dai privilegi concessi alla curia arcivescovile dal duca Ruggero Borsa e dalla duchessa Sichelgaita, oltre che dai re Ruggero II e Guglielmo II, dove gli ebrei di Rossano appaiono come vassalli dell’arcivescovo, confermati da Costanza nell’agosto del 1198 e da Federico II nel maggio del 1223, il quale provvide pure a confermare la concessione al medesimo arcivescovado di otto famiglie di ebrei fatta dal Guiscardo, che attesterebbero sia la continuità dell’insediamento da un’età all’altra, sia il nuovo stato giuridico degli ebrei in età normanna, dipendenti ora dalle curie vescovili. Per tanto la geografia del popolamento giudaico, oltre che a rispondere a dinamiche interne, appare qui condizionata pure dall’evoluzione della più generale geografia amministrativa: l’affermazione di nuovi centri di potere determina l’aggregazione degli ebrei in nuovi siti. Infine, la Vita getta anche un po’ di luce anche sul nostro tema.

Non è solo per ragioni di opportunità che Nilo rifiuta l’offerta di aiuto del medico: la netta separazione dagli ebrei e il divieto di commistione dei chierici con loro erano stati, infatti, sanciti dall’XI canone del Concilio Trullano del 692. Parimenti, le difficoltà dei due ebrei a trattenersi presso l’eremo del Santo e a intrattenere rapporti troppo stretti con lui sono di certo un topos letterario e celano l’impaccio di chi si difendeva da una proposta tanto palesemente missionaria; ma nell’economia della narrazione danno al Santo l’occasione di una citazione evangelica (Gv. XII 42, 43) concernente la paura di chi credette, ma non si convertì per timore di essere cacciato dalla Sinagoga.

La stessa controversa lettera di Nilo ai giudici di Bisignano denota un degrado tale della condizione degli ebrei nel sentire del Santo e dell’agiografo da affermare che un ebreo valeva la settima parte di un cristiano, al punto che una richiesta di giustizia per un grave delitto si tramuta in un’affermazione di colpa collettiva, tale da svuotarla di significato e da restare inascoltata.

Infine, in un altro luogo della vita Nilo discute con i monaci cassinesi sui diversi usi delle due Chiese, latina e greca, con particolare riferimento agli usi del sabato e in un passaggio afferma con nettezza che «non ci asteniamo, nel sabato, dalle opere servili per non assomigliare ai deicidi ed empi Giudei», tanto per chiarire il pensiero suo o del suo agiografo.

Il diffuso antigiudaismo della Vita non è da ritenersi soltanto il frutto della penna del tardo agiografo di Grottaferrata dell’XI sec., condizionato dal più generale clima antigiudaico latino a lui contemporaneo, su cui si
tornerà, ma ha un qualche riscontro in opere agiografiche più antiche del Mezzogiorno bizantino ed è espressione del sentire del clero, sopratutto dei monaci, di quelle terre, diverso da quello dei chierici di area longobarda.

Terre che, a partire proprio dal regno di Leone III conobbero una decisiva impennata del processo di bizantinizzazione, accompagnato dal rafforzamento dell’elemento ellenofono, all’ombra del patriarcato costantinopolitano, che aveva esteso nel frattempo la propria giurisdizione sul ducato, poi thema, di Calabria, processo compiuto alla fine dell’VIII secolo.

Della vita del vescovo siracusano Zosimo abbiamo già detto; anche in Sicilia, oltre che a Costantinopoli, nell’VIII secolo gli ebrei vengono associati ai montanisti; il proemio della Vita di s. Leone di Catania è ricalcato su quello del concilio iconoclasta di Hieria del 754 e ricorda la malizia e la blasfemia giudaica, confermate poi nella narrazione dal topos dell’ebreo mediatore tra l’uomo e il diavolo. Proprio quando Basilio I il Macedone conduceva nell’873-74 la sua campagna di conversioni di massa degli ebrei, l’ex arcivescovo di Siracusa, Gregorio Asbesta con argomentazioni accentuamente antigiudaiche tuonava nel suo trattato sul battesimo degli ebrei contro la politica imperiale, perché scarsamente incisiva e non risolutiva: convertire gli ebrei con esenzioni fiscali, donativi o concessioni di onori non risolveva il problema, anzi facilitava solo le conversioni degli opportunisti, che cercavano così di ottenere privilegi e sulla cui ortodossia non si poteva fare affidamento.

Non mancano neppure le guarigioni miracolose atte ad accelerare le conversioni degli ebrei, come nei rutilanti atti della fine dell’VIII secolo e dell’inizio del IX dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino di Lentini, dove i convertiti
vengono poi violentemente attaccati dagli altri giudei ortodossi.

Le opinioni sugli ebrei degli autori di fonti agiografiche si possono cogliere indirettamente pure nella Vita di s. Elia il Giovane del X secolo, in cui il santo, vissuto tra 1’823 e il 903, predicando agli Agareni, spiegava le varie matrici della loro ‘superstizione’ e tra le diverse ‘eresie’ poneva pure la religione ebraica.

La Vita dei santi Saba e Macario, in maniera incidentale e senza apparente nesso con la narrazione, menziona le pene per la morte del Cristo inflitte alla gente giudaica.

Ancora, il Bios di s. Luca di Catania dei primi del IX secolo ripropone in ambiente italo-greco il topos del mago ebreo in commercio con satana: è un ebreo che rende possibile l’iniziazione diabolica del mago Eliodoro, che così acquisisce i suoi straordinari poteri. L’ebreo consegna un chirografo scritto da lui per Eliodoro, il quale deve spiegare lo scritto dall’alto di un monumento funebre pagano a mezzanotte, in tal modo appare il diavolo a cavallo di un cervo, che subito accetta l’abiura e la sottomissione dell’aspirante mago e gli fornisce un suo servo diabolico come aiutante.

Uno dei miracoli di s. Luca vescovo di Isola Capo Rizzuto, e qui siamo ovviamente nella seconda metà dell’XI secolo, avviene perché, discutendo di azzime, fa infuriare i ‘latini’ della sua diocesi quando li paragona ai farisei e al loro modo di interpretare le scritture, visto che amministrano le azzime come gli ebrei, al punto che costoro tentarono di bruciarlo vivo in una capanna.

Certamente queste non sono opinioni originali, ma il riflesso di un atteggiamento diffuso in particolar modo nell’universo monastico italo-greco; un’opposizione violenta che strideva, tanto più era radicale, con i generali comportamenti della popolazione improntati in linea di massima a mutue e tolleranti relazioni, attestate in definitiva dalla stessa vita di s. Nilo.

Probabilmente proprio per questo il compilatore calabrese del Prochiron legum tra gli anni Trenta e Quaranta del X secolo riprese i divieti giustinianei, ribaditi tra l’altro nella legislazione di Leone III l’Isaurico e di Basilio I il Macedone, atti a limitare il proselitismo giudaico, un vero incubo per monaci e amministratori pubblici.

In più, abbiamo una delle testimonianze provenienti dall’Italia bizantina delle disposizioni antigiudaiche di Basilio I dell’873-74. La cronografia della così detta Cronaca cassanese, cioè la parte greca della cronaca siculo-saracena di Cambridge dell’XI secolo, tramanda infatti la notizia che nell’anno 6382 della VII indizione, per l’appunto l’873-74, tutti gli ebrei vennero battezzati. Un battesimo che secondo Ausilio, un chierico forse franco, certo, ma attivo a Napoli alla fine del IX secolo, avvenne con la forza, anche se poi restarono in pochi, come spesso accadeva, a professare la nuova fede:

 

Porro, quod dicturus sum, plurimi noverunt et recolunt: Basilius siquidem imperator, pater imperatorum Leonis et Alexandri multos Iudaeorum per vi baptizari fecit, ex quibus ammodum pauci parvo post tempore spontanei praebuerunt assensum credendi in Christum et evangelica mandata pariterque apostolica documenta, ut moris est, custodire libenter professi sunt, attamen nemo eorum iterum baptizatus est.

 

Si impongono così alla nostra attenzione i tragici riflessi in periferia dell’antigiudaismo di Stato dell’Impero bizantino: le decisioni dei vertici si traducevano in atti repressivi violenti e improvvisi imposti dall’autorità pubblica anche nei territori dei confini occidentali e applicate dai funzionari ai quali era affidato il governo delle province, abbattendosi sulle popolazioni da essi amministrate. Anche il provvedimento di Basilio I è stato spiegato come il riflesso di una crisi di politica estera, la conversione, cioè, al giudaismo dei Cazari e il timore che il credo ebraico potesse rapidamente diffondersi in un’area ritenuta tradizionalmente di influenza costantinopolitana, al pari dell’altro posteriore al 932 di Romano I Lecapeno, giustificato a causa dell’esplosione di violenze tra gli ebrei e i cristiani di Gerusalemme. Certamente la forzosa politica evangelizzatrice è legata alla dimensione per così dire sacerdotale delle prerogative imperiali: l’imperatore è il custode dell’ortodossia ed è suo compito far coincidere i confini dell’impero con quelli dell’ecumene cristiana, oltre a estenderli. Tuttavia, com’è stato già osservato, sono proprio gli imperatori ascesi al trono con atti violenti, oppure con sotterfugi giuridici, i quali violavano norme successorie e usi consolidati, a voler dimostrare con atti persecutori su vasta scala la propria ortodossia, atti che poi non venivano imitati dai diretti successori, ma sopra tutto erano vanificati, superata la crisi violenta, dal ritorno degli stessi convertiti alla fede avita.

Comunque sia, proprio sulle conseguenze delle due ondate persecutorie della dinastia Macedone, dell’873-74 e del 932 post e l’impatto che ebbero sulla vita delle comunità poste sotto la sovranità imperiale, ci sono rimaste testimonianze precise di provenienza pugliese, per giunta interne al mondo ebraico. Il discorso, però, in quest’altra zona si complica ulteriormente, perché ci spostiamo in un territorio che, indipendentemente dal governo di Costantinopoli, è da considerare a pieno titolo di civiltà longobarda, cioè popolato, e in maniera preponderante, se non in larga parte esclusiva, con l’eccezione della penisola salentina, da popolazione di lingua latina, retta dal diritto longobardo e di osservanza romana. Sopra tutto, un’ampia porzione di questo stesso territorio è stata a lungo parte integrante del ducato e principato di Benevento prima, e di quelli di Salerno e Benevento dopo l’848/49. Una differenza sottolineata dagli stessi contemporanei, se si pensa, tanto per fare un esempio, ad al-Baladuri, morto nell’892, che a proposito di Bari scriveva che era una città posta sulla spiaggia del mare, abitata da cristiani, che non appartenevano alla ‘schiatta dei Rûm’, cioè non erano da considerare bizantini a tutti gli effetti.




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NOTE:

Lo scopo della trascrizione di un paragrafo del volume in oggetto, ha lo scopo di favorire la conoscenza di parte di storia che ci appartiene, anche attraverso un collegamento interattivo, che possa raggiungere tutti, oltre a costituire un contenitore digitale d'informazioni e fonti bibliografiche.


BUONA LETTURA!