Nedo Fiano scomparso ieri 19 dicembre 2020 |
Il 28
gennaio 2017, l’Associazione Culturale Pitagora organizzò al Teatro Comunale Francesco
Cilea di Reggio di Calabria una serata per il Giorno della Memoria.
Destinando
il ricavato all’Hospice della città della Fata Morgana.
Di seguito il mio intervento, il cui incipit è dedicato a Nedo Fiano.
ancora un bicchiere di vino
È il titolo di un’antica e malinconica canzone popolare greca – imparata da un internato greco - che, talvolta, canta ancora Nedo Fiano (lo ricorda il figlio Emanuele con un post su Facebook): uno degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz tuttora in vita. Unico sopravvissuto della sua famiglia: undici morti. Compresa Gemma, la nonna ottantenne e Sergio, il nipote di diciotto mesi. A 5405 il numero tatuato sull’avambraccio sinistro. Nedo è ancora con noi: ma non più tra noi. Dopo una vita dedicata a raccontare quanto accaduto (ha collaborato con Roberto Benigni per il film La vita è bella) lo scorrere inesorabile del tempo ha fatto il suo corso anche per lui. Per il quale la memoria era una scelta di vita. Non ricorda più: solo i suoi occhi continuano a parlare. Vive in una Casa di Riposo con la moglie Rina, la sua Rirì, l’amore di una vita. Amore nato prima della Shoah e sopravvissuto alla Shoah. Appena arrivato ad Auschwitz - dopo un viaggio di sette giorni in un vagone piombato senza acqua, luce, cibo – Nedo fu separato dalla madre Nella che, intuendo quanto stava per accadere, gli disse: “Nedo, abbracciami! Non ci vedremo mai più”. È proprio vero quanto afferma un antico detto ebraico: Dio non potendo essere dappertutto ha creato le mamme. Poi quando una SS chiese se qualcuno parlasse tedesco: Nedo si fece avanti, era stato il nonno a insegnarglielo. Fu la sua salvezza. Tornato a casa, a Firenze, la trovò completamente svuotata: c’era solo una scarpa del fratello Enzo. Nonostante i libri scritti e le testimonianze rese Nedo era conscio di non poter mai tradurre come scrive egli stesso “l’angoscia profonda, la paura radicale, l’annullamento del prigioniero nel campo di sterminio”. Ho citato Fiano perché è difficile parlare di Shoah. Il rischio è essere retorici o, peggio, banali. Da evitare. Allora che fare? Tacere? No. Mai. Non possiamo; non vogliamo; non dobbiamo accettare l’oblio. “Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bimbi di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio, la mia anima e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò anche se fossi condannato vivere quanto Dio stesso. Mai” Sono le parole di Eli Wiesel, anche lui sopravvissuto ad Auschwitz: morto lo scorso luglio. È bene perciò cominciare ascoltando i testimoni: quasi tutti ormai scomparsi. Consapevoli, come diceva Primo Levi, che i veri testimoni sono i sommersi che non hanno potuto raccontare nulla. Qualcuno potrebbe dire: “Ancora con questa storia di ebrei?” Si, perché è la nostra storia. E poi gli ebrei non furono le sole vittime, anche se più numerose. Con loro: omosessuali; massoni; zingari; oppositori politici; diversamente abili; internati militari; testimoni di Geova. Forse ho dimenticato qualcuno. E se il nazismo non fosse stato sconfitto? Quali altre categorie sarebbero state aggiunte al lungo elenco di morti? E che mondo sarebbe stato? Basta leggere Fatherland di Robert Harris, un mondo senza traccia di orrori: cancellati come se non fossero mai accaduti. C’è chi parla di passato che non passa. Il passato non deve passare o restare: è già passato. A noi il compito di collocarlo adeguatamente nella nostra vita e nella storia. Dinanzi agli orrori della Shoah, talvolta ci si chiede: dov’era Dio? Io aggiungo dov’era l’uomo? Dov’era la sua coscienza? E vado oltre con una domanda che mi angoscia da sempre. Io: sarei stato muto testimone? E cosa avrei potuto fare? Eppure, col senno di poi sarebbe bastato poco: come insegnano le tante storie dei Giusti tra le Nazioni. Non furono eroi nel senso comune del termine. Non compirono azioni eclatanti. Ascoltarono la voce della coscienza: agendo di conseguenza. Con piccoli, grandi gesti salvarono la vita altrui: mettendo a rischio la propria. Aiutando anche solo una persona. Un aspetto della Shoah inquieta anche perché la precede e la prepara (ed è purtroppo terribilmente attuale): le parole usate come clave: violente, distruttrici.
Auschwitz |
Sottouomini Untermensch così erano definiti gli internati
nei lager: degni solo di essere eliminati. Eppure, c’è chi usa questa terribile
parola con nonchalance nella grande agorà virtuale. Ma oltre a ricordare: cosa
possiamo e dobbiamo fare? Non
banalizzare. Se tutto è Shoah: nulla è Shoah.
Se qualsiasi luogo di sofferenza è un lager o Auschwitz: nulla è Auschwitz. Se
definiamo Mengele un medico per condannare il suo operato, i suoi errori, la
sua disattenzione: ignoriamo chi sia stato Mengele. Mai disattento e soprattutto
ignoriamo il suo agire mai frutto di errori ma voluto e pianificato. Altri
orrori hanno attraversano il secolo breve e l’inizio del terzo millennio:
terribili ma non paragonabili alla Shoah. In comune – purtroppo, quasi sempre -
la disattenzione del mondo. Ma per arrivare alla Shoah dobbiamo passare dalle
Leggi Razziali del 1938 (ottant’anni l’anno prossimo) con cui furono espulsi
dalle scuole e dalle università italiane studenti e docenti ebrei. Agli ebrei,
tra i tanti divieti, fu proibito di possedere una radio. Sui registri
anagrafici e sui documenti scolastici fu apposto il timbro di razza ebraica. I
dipendenti pubblici furono licenziati. Gli avvocati furono costretti a chiedere
di essere cancellati dall’albo per poi essere iscritti in elenchi speciali. E
tante, tante altre vessazioni. Fa freddo stasera. Eppure, siamo ben coperti.
Immaginate il freddo nelle gelide baracche sotto la neve. Forse – come me - avete
anche le mani screpolate: un po’ di crema sistemerà tutto. Pensate ai piedi
nudi nella neve con solo un paio di zoccoli. Avete fame? Ancora un po' di
pazienza: poi andremo a mangiare. Qualsiasi cosa sarà migliore di quella zuppa
di acqua e bucce di patate mangiata nei Lager. Tra i sommersi: un milione e
mezzo di bambini. Ricordo solo Sissel Vogelmann, otto anni, inghiottita
dall’orrore di Auschwitz con la madre Anna Disegni. Sissel, dolce in Yiddish. Sopravvisse
solo il padre Shulim, il quale risposatosi ebbe un figlio Daniel, fondatore de
la casa editrice La Giuntina. Daniel ha dedicato alcune poesie a Sissel: sorella
mai conosciuta: dalla vita mai vissuta: finita nel vento.
Muor giovane colui ch’al
ciel è caro
Reggio di Calabria, 28 Gennaio 2017