25 APRILE – FESTA DELLA LIBERAZIONE
77° ANNIVERSARIO
DELL’ECCIDIO DELLE FOSSE ARDEATINE
I MARTIRI DI CALABRIA E QUELLI EBREI DI UCRAINA
Il 24 marzo 1944, alle Fosse Ardeatine, antiche cave di
pozzolana presso la via Ardeatina di Roma, 335 persone tra militari e civili
italiani, compresi pochi ebrei stranieri allora presenti a Roma, furono
trucidati dalle truppe tedesche come rappresaglia per l’attentato partigiano di
via Rasella. L’esecuzione venne compiuta sparando un colpo di pistola alla nuca
di ciascun “condannato”. Purtroppo tra le vittime vi furono anche 5 d’origine
calabrese, che qui di seguito brevemente ricordiamo.
BENDICENTI Donato Federico Maria nacque il 18-10-1907 a
Rogliano (CS) da Giacinto e da Leonetti Adele. Donato apparteneva ad un’agiata
famiglia della borghesia; suo padre Giacinto, che era farmacista, instillò nel
figlio giovinetto ideali di democrazia e di libertà. Donato studiò
giurisprudenza all'università di Roma e vi si laureò. Una volta laureato,
rimase nella capitale per iniziare ad esercitare la professione d’avvocato; a
Roma conobbe e sposò Elisa Tedeschi. Dalla loro unione nacquero due figli,
prima una femmina, poi un maschio, a cui furono dati i nomi dei nonni paterni,
cioè Adele e Giacinto. Sebbene fosse sistemato a Roma, l’avvocato Bendicenti
mantenne sempre stretti contatti con Rogliano e Cosenza, dove spesso
soggiornava, soprattutto nelle vacanze estive.
Vivendo a Roma, Donato prese a frequentare ambienti della
Sinistra e aderì al partito comunista. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943
entrò in contatto con esponenti della Resistenza e divenne partigiano nella
banda romana del Trionfale, comandata da un compaesano, il colonnello Stanislao
Vetere di Rogliano. Bendicenti diventò di fatto un alto dirigente del PCI;
nella sua abitazione romana, in via dei Gracchi 195, si riunì sovente la
direzione clandestina del partito. Proprio in quella casa, il 3 marzo 1944,
c’era stato un breve incontro a quattro dell’avv. Bendicenti con Giorgio Amendola,
Mauro Scoccimarro e Giacomo Pellegrini (dirigenti clandestini, che nel
dopoguerra sarebbero divenuti tutti e tre parlamentari del PCI). Sennonché
pochi minuti dopo che quella riunione si era sciolta ed i tre ospiti
allontanati, irruppero in casa alcuni fascisti della squadra speciale del
questore Pietro Caruso; catturarono Bendicenti, lo rinchiusero nel carcere
segreto di via Principe Amedeo (pensione Oltremare), lo sottoposero a lunghi
interrogatori e lo seviziarono (senza che il partigiano-avvocato rivelasse alcunché).
Il 24-3-1944 l’avv. Donato Bendicenti fu barbaramente ucciso alle Fosse
Ardeatine. I suoi miseri resti sono stati ricomposti nel sacello n. 185 del
Mausoleo allestito alle Ardeatine.
Come da decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
133 del 6-6-1958 alla memoria di D. Bendicenti fu conferita la Medaglia
d’argento al valor militare. Cosenza e Rogliano gli hanno intitolato una via.
BUCCIANO Francesco, di Alfonso e di Amelia Zigari, era
nato a Castrovillari (CS) il 5-8-1894. Nei registri della Resistenza viene presentato
come Franco Bucciano, Ufficiale di fanteria e veterano di due guerre, quella
libica del 1911-12 (a cui partecipò come giovanissimo volontario) e quella del
1915-18, in cui fu tre volte ferito. Durante il ventennio fascista fu impiegato
come ragioniere alla ditta Firmar, ma per la sua attività di tenace oppositore
al fascismo fu costretto ad abbandonare il suo impiego e a vivere in
ristrettezze economiche. Aderì al Movimento Comunista d’Italia-Bandiera Rossa,
ricoprendone un ruolo delicato e importante, poiché doveva organizzare e
coordinare una formazione ideologicamente composita e assai variegata, nella
quale confluivano anarchici e stalinisti, comunisti bordighiani e trotzkisti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943,
Bucciano si unì alle squadre partigiane, combattendo contro gli occupanti tedeschi
a Porta San Paolo e al Colosseo. Nei mesi seguenti fu impegnato a organizzare e
ad assistere i compagni partigiani, partecipando anche ad atti di
sabotaggio. Nel marzo 1944 stava
preparando un piano per un’azione clamorosa, far evadere da Regina Coeli i
compagni detenuti; ma un delatore, infiltrato nelle file di Bandiera Rossa, lo
denunciò all’OVRA, la polizia segreta fascista. Il 21-3-1944, mentre se ne
stava nella sua casa di via Ipponio 8, fu arrestato da “scherani della Banda
Koch” e portato dapprima alla pensione “Oltremare” in via Principe Amedeo; da
lì trasferito al carcere Regina Coeli; tre giorni dopo la cattura (24-3-1944)
fu ucciso alle Ardeatine. Franco Bucciano era sposato con Isabella De Rossi (di
anni 45 nel 1944).
I suoi resti furono ricomposti al sacello n.159 del
Mausoleo delle Fosse Ardeatine. Per decisione della Commissione di II grado per
le qualifiche partigiane gli fu conferita la Medaglia di bronzo al valor
militare, alla memoria. All’esterno della sua casa romana, in via Ipponio 8, è
stata apposta una lapide con la scritta: “In questa casa abitò Franco
BUCCIANO/del Movimento Comunista d’Italia /che nella lotta/ contro il
Nazifascismo / cadde trucidato / alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944”.
FRASCÀ Paolo, nacque a Gerace Superiore (RC) il 18-05-1898
dai coniugi Fortunato Frascà e De Franco Teresa. Sul suo conto abbiamo reperito
pochissime notizie ufficiali. Il fascicolo, che l’ANFIM (Associazione Nazionale
Famiglie Italiane Martiri) gli ha intestato, contiene solo una sua fototessera;
lo presenta genericamente come “impiegato” e ne indica il sarcofago (sacello n.
78) al Mausoleo delle Fosse Ardeatine. Lo storico Paolo Palma dell’ICSAIC lo
annovera tra i socialisti e ricorda la sua militanza in due formazioni
partigiane di Roma: 1) nella “banda Napoli”, dove operava il compaesano geracese
Giuseppe Albano (divenuto famoso col soprannome di “Gobbo del Quarticciolo”);
banda che in verità era comandata da un altro calabrese, il socialista Franco
Napoli, nome di battaglia “Felice”; 2) nella “banda Neri” del Fronte Militare
Clandestino di Resistenza. Un articolo del
quotidiano Repubblica di giugno 2018,
che commentava una sentenza del Tribunale civile di Roma a favore degli eredi
di Frascà, ci fornisce ragguagli sulla vicenda di questo Martire delle
Ardeatine. Il Tribunale romano, accogliendo il ricorso presentato da Bruno,
figlio del Martire Paolo Frascà, ha condannato lo Stato della Germania a
risarcire il figlio Bruno, che, all’epoca dell’uccisione di papà Paolo, aveva
solo due anni, per le sofferenze fisiche e psichiche sofferte dal padre. In
particolare la sentenza sottolineava che il 27-01-1944, in seguito a delazione
di spie italiane, la polizia tedesca aveva prelevato Frascà dalla sua
abitazione romana con la scusa di doverlo mandare a un campo di lavoro. In
realtà fu portato a via Tasso, dove c’erano la caserma e il carcere delle SS attive
a Roma; lì fu recluso per quasi due mesi, tenuto sempre con le mani ammanettate
dietro la schiena, e di continuo torturato. Il 24 marzo, giorno
dell’esecuzione, dopo che gli era stato detto che il nome suo era stato
cancellato dalla lista dei condannati a morte, fu invece condotto alle
Ardeatine; dovette sostare per qualche ora nel piazzale antistante alle antiche
cave di pozzolana; introdotto infine dentro le Fosse, fu costretto a subire la
macabra visione del mucchio di corpi genuflessi dei compagni uccisi prima che
toccasse a lui.
Sempre da quella sentenza del 13-6-2018 veniamo a
conoscere altre notizie biografiche interessanti. Paolo Frascà era sposato con
Gilda Schiavo. Apprendiamo i nomi di alcuni dei loro figli: Teresa (nata nel
1921 a Siracusa, che rinnovava il nome della nonna paterna); Fortunato
(1931-2006), che portava il nome del nonno paterno; Bruno (1941-2018), che
aveva promosso il ricorso contro lo Stato Tedesco.
Risulta inoltre che nel 1944 che P. Frascà era impiegato
all’ ufficio romano, sito in via Sforza 10, rione Monti, della SAIB – Società
Anonima Importazioni Bovine, ossia la stessa azienda triestina per la quale
lavorava a Budapest il cosiddetto “Schindler italiano”, Giorgio Perlasca.
Al nome di Paolo Frascà è stata intitolata una via di
Gerace, sita poco a nord della Cattedrale. Poi a fine gennaio 2020, sempre a
Gerace, alla presenza del Sindaco dott. Pizzimenti e di Carla e Federica,
nipoti di Paolo Frascà, è stata collocata una “pietra d’inciampo” davanti alla
casa natale del Martire geracese trucidato alle Fosse Ardeatine.
VERCILLO Giovanni, figlio di Luigi e di Teresa De Riso,
era nato a Catanzaro l’11-10-1908. Laureato in Giurisprudenza, anziché
intraprendere la professione d’avvocato, entrò nei ruoli della Corte dei conti.
Mentre in Europa divampava la 2^ guerra mondiale, Vercillo era divenuto a Roma
“referendario” ossia magistrato che ricopriva la qualifica iniziale della Corte
dei conti; Giovanni era celibe e a Roma abitava in piazza Mazzini 27.
Nell’estate del 1943, quando alcune sezioni dello Stato Maggiore del Regio
Esercito si trasferirono a Monterotondo, Vercillo in qualità di Ufficiale, fu
richiamato in servizio con il grado di Capitano. Dopo l’armistizio dell’8
settembre, e a seguito della fuga del Re e del governo Badoglio verso Pescara e
poi a Brindisi, i Tedeschi assunsero il controllo di Roma. Fu allora che il
capitano Vercillo cominciò a prendere contatti con qualche formazione
clandestina della Resistenza romana. Probabilmente non prese parte attiva in
nessun episodio della lotta armata partigiana a Roma, anche se fu annoverato
come Capitano della banda “Fossi”, unità partigiana del Fronte Militare
Clandestino della Resistenza. Nel suo fascicolo di Martire delle Ardeatine sono
riportate alcune notizie molto interessanti. Il 18 marzo 1944 il capitano
Vercillo fu arrestato da un ufficiale tedesco delle SS e da un uomo in
borghese; come luogo dell’arresto è indicata genericamente via Lucullo, In
quella stessa giornata erano stati arrestati altri due capitani, entrambi
accusati di militare nel gruppo partigiano clandestino “Fossi”: il capitano Villoresi
era stato arrestato nella sua casa in via Gianturco, e il capitano Azzarita
nell’abitazione in piazza Cavour. Ritengo verosimile pensare che Vercillo sia
stato dapprima prelevato dalla sua casa in piazza Mazzini, poi forzatamente
condotto in via Lucullo 6, dov’era insediato il Tribunale militare tedesco;
quindi vi era stato arrestato sotto l’accusa di essere in collegamento con
autorità militari alleate anglo-americane. Fu subito trasferito dal Tribunale
tedesco in via Lucullo 6 al carcere delle SS, in via Tasso. Mentre Giovanni era
detenuto in via Tasso, i suoi familiari, per farlo liberare, si rivolsero in
Vaticano e contattarono un alto prelato tedesco, Padre Pancrazio, superiore
generale dei Salvatoriani, ma questo tentativo non ebbe successo. Allo stesso
modo fallirono i tentativi fatti da Bruno Cassinelli (principe del foro romano
e abile penalista) e dall’avv. Toscano, di prosciogliere Vercillo dalle accuse
mossegli da parte dei nazifascisti. Il 24 marzo del ’44 fu ucciso alle
Ardeatine; il suo cadavere fu poi ricomposto al sacello n.79 del Mausoleo.
Analogamente furono trucidati i suoi colleghi capitani: il
corpo di Manfredi Azzarita fu tumulato nel sacello 87 del Mausoleo; quello di
Renato Villoresi nel sacello 30. Alla memoria di ciascuno dei due fu conferita
la massima onorificenza, ossia la Medaglia d’oro al valor militare. Al nome del
Martire Vercillo Giovanni, la sua città natale, Catanzaro, ha intitolato una
via del centro cittadino.
LO PRESTI Giuseppe fu il 5° Martire di sangue calabrese,
trucidato alle Fosse Ardeatine; in verità era nato a Roma il 31-05-1919 da
Antonino e da Marchetti Augusta, ma i suoi genitori erano di Palmi (RC).
Giuseppe era il terzogenito ed unico maschio; prima di lui erano nate le
sorelle: Maria (del 1915) e Laura (del 1917). Suo padre Antonino era Ufficiale
medico dell’esercito (dove arrivò al grado di ten. colonnello) e a lungo prestò
servizio, e vi abitò con la famiglia, nella Capitale. Comunque i Lo Presti
mantennero sempre stretti legami con la Calabria; a Palmi, l’adolescente
Giuseppe frequentò le scuole pubbliche. Poi, per gli studi superiori, Giuseppe
tornò a Roma, fu iscritto al Ginnasio Liceo “Tasso” e vi ebbe per compagni di
scuola Paolo Pavone, poi partigiano e storico della Resistenza, Carlo Lizzani,
poi regista cinematografico, e Ruggero Zangrandi, futuro storico del fascismo. Quindi
si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si laureò in legge; Giuseppe
conobbe una giovane, Graziella Ferrero, con cui si fidanzò.
Quando l’Italia
fu coinvolta nella II guerra mondiale, Giuseppe Lo Presti fu chiamato alle armi
e divenne sottotenente di complemento d’artiglieria nell’VIII Corpo d’armata. Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 il nostro
Giuseppe, opponendosi ai fascisti e ai nazisti che spadroneggiavano a Roma, si
unì ai partigiani socialisti del PSIUP e fu al fianco di Giuliano Vassalli,
autorevole esponente del CLN-Comitato di Liberazione Nazionale. Nonostante la
giovane età (meno di 25 anni) gli fu affidata la responsabilità di comandante
della 6^ zona di Roma (quartieri Appio, Esquilino, Celio).
Per rievocare la sua attività di capo partigiano e di
organizzatore della Resistenza romana trascriviamo integralmente la motivazione
con cui gli venne conferita, alla memoria, la Medaglia d’oro al valore
militare: “Con l’ardire della giovinezza
e l’audacia dei forti accorse all’appello della Patria. Ispettore di zona,
presente sempre nelle imprese più rischiose, si distingueva per la calma fredda
e il valore insuperabile. Animatore infondeva (?) nell’animo dei dubbiosi e li
trascinava nelle azioni più ardite. Mentre con nobile senso di altruismo
tentava di mettere in salvo un compagno minacciato di arresto, veniva egli
stesso catturato e trascinato nel covo di via Tasso¹. Ripetutamente sottoposto alle più inumane sevizie trovava nella
propria fede la forza per resistere e tacere fieramente, salvando così la vita
dei suoi compagni di lotta. Il piombo nemico, alle Fosse Ardeatine, troncò
l’eroica e breve esistenza – Roma, 24 marzo 1944”.
La frase contrassegnata con l’apice (¹) si riferisce alla
vicenda dell’arresto di Giuseppe Lo Presti e del fermo di un suo compagno. Il
13-03-1944 Lo Presti fu arrestato a piazza Indipendenza dove era stato attirato
con l’inganno di un falso appuntamento con il compagno, Paolo Possamai. I due
amici furono tradotti nel covo nazista di via Tasso, diretto da Kappler; subito
Lo Presti venne sottoposto ad un incalzante interrogatorio, seguito da
terribili torture. Giuseppe resistette alle atroci sevizie e per scagionare
Possamai dall’accusa di aver partecipato ad azioni partigiane, addossò su di sé
ogni responsabilità, dichiarando che Paolo Possamai era soltanto un amico, che non
vedeva dai tempi dell’università, e casualmente l’aveva incontrato a piazza
Indipendenza, dove erano stati fermati. Dalla cella nazista di via Tasso, il
povero Lo Presti, stremato e sfigurato dalle torture, fu tradotto al carcere di
Regina Coeli, e, pochi giorni dopo, al luogo delle esecuzioni alle Fosse
Ardeatine (24 marzo 1944).
Dopo la liberazione di Roma dagli occupanti nazifascisti
(4-06-1944) i cadaveri dei Martiri vennero man mano esumati e identificati. Il
corpo di Lo Presti fu poi tumulato nel sacello n. 4. Il numero di sacello
veniva assegnato seguendo l’ordine di identificazione dei cadaveri; poiché i
tedeschi ammassarono i corpi delle 335 vittime uno sopra l’altro in 5 strati,
quelli dei Martiri giustiziati per ultimi, trovandosi in cima dell’orrenda
catasta, furono i primi ad essere identificati.
Il 25 aprile 1947, secondo anniversario della
Liberazione, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi consegnò ad Augusta
Marchetti, madre del Martire, la Medaglia d’oro al valor militare, sopra
indicata. Sul muro esterno dell’edificio di via Adige 43 a Roma è collocata una
lapide con la seguente iscrizione:
“Questa casa abitò /
Giuseppe Lo Presti / Giovane di 24 anni / Combattente per la libertà /Dai
Tedeschi tolto alla vita / Fosse Ardeatine 24 marzo 1944 / Partito Socialista
Italiano”. Al nome di Giuseppe Lo Presti sono intitolate due vie:
una al quartiere Torrino di Roma (a sud ovest dell’EUR), un’altra nel comune di
Ciampino. Palmi, città d’origine della sua famiglia, ha intitolato, al giovane comandante
partigiano e Martire delle Ardeatine, lo stadio comunale di calcio.
EBREI UCRAINI TRUCIDATI ALLE FOSSE ARDEATINE
È stato assai difficile riconoscere i resti di tutte le
vittime uccise alle Fosse Ardeatine, e, 78 anni dopo il loro martirio, di una
di esse neppure si conosce l’identità. Dei 335 Martiri, quelli italiani erano
circa 325, e 9 o 10 erano stranieri. Dei 9 stranieri identificati
con sicurezza, ben 4 erano ebrei nati in città ora ucraine; in questo periodo particolarmente
tragico per l’Ucraina ricordiamo i nominativi e le figure dei 4 Martiri,
assassinati sol perché erano di religione e cultura ebraica. All’esterno della Sinagoga di Roma sul
lungotevere De’ Cenci, per celebrare nel 1946 il 2° anniversario del martirio
fu collocata una lapide marmorea con i nominativi degli ebrei trucidati alle Ardeatine;
la lista era incompleta e conteneva i nomi dei Martiri che si era riusciti ad
identificare fino a marzo 1946. Sotto l’iscrizione in lingua italiana:
“ALLE FOSSE ARDEATINE IL CORPO MARTORIATO
SU QUESTA PIETRA IL NOME IMPERITURO
FRA LE BRACCIA DELL’ETERNO L’ANIMA IMMORTALE”
erano incisi 71 nomi, tra cui i seguenti tre di ebrei
ucraini:
Blumstein Giorgio di Leone / Landesmann Boris di David /
Drucker Salomone di Aronne.
Il quarto Martire ebreo alle Ardeatine, e nato sul suolo
dell’Ucraina, è stato identificato solo nella primavera del 2020 e portava il
nome di Reicher Marian.
BLUMSTEIN Giorgio Leone
In verità sulla
lapide della Sinagoga di Roma, del marzo 1946, fu incisa la dicitura “Blumstein
Giorgio di Leone” e quindi sembrerebbe che “Leone” fosse il nome di suo padre;
viceversa in tutti gli elenchi delle vittime delle Fosse Ardeatine il cognome
Blumstein è sempre seguito da “Giorgio Leone”, per cui “Leone” dovrebbe essere il
suo secondo nome. Forse “Leone” suggella il profondo legame di Blumstein con la
sua città natale “Leopoli=Città di Leone”. Nel
sito del “Mausoleo Fosse Ardeatine” il suo fascicolo personale contiene questi
pochi dati: Blumstein Giorgio Leone –
sarcofago n. 261 – nato a Leopoli nel 1895 – banchiere. Non c’è nessuna
fotografia, ma c’è la copia di una lettera raccomandata scritta nel 1955
dall’ANFIM- Associazione Nazionale Famiglie Italiane Martiri e inviata alla
Cancelleria della Ambasciata Polacca nella speranza, andata delusa, di raccogliere
dati più precisi sul Martire Blumstein.
Nel 1895 (anno di
nascita di Blumstein) la città denominata in italiano “Leopoli” apparteneva
all’impero di Austria-Ungheria, di cui costituiva la 4ª città più popolosa
(censimento del 1910). Città cosmopolita (chiamata Lviv in ucraino, Lwow in
polacco, Lemberg in tedesco e in yiddish, Lvov in russo), Leopoli negli ultimi
secoli, e prescindendo dallo Stato a cui di volta in volta venne aggregata, è
stata un centro di rilevante importanza dal punto di vista economico, politico,
culturale e religioso.
Dopo il crollo dell’impero asburgico e a conclusione di
una guerra polacco-sovietica (1920) Leopoli fu annessa alla Polonia. Nel 1931 a
Leopoli il 63,5% della popolazione era polacca; il 24% erano ebrei; l’11,2%
erano ucraini; l’1,3% (tedeschi, russi e altri). Dal punto di vista religioso:
il 50,4% erano cattolici latini; il 16% erano greco-cattolici; il 31,9% erano israeliti.
A Leopoli erano aperti ben 50 luoghi sacri israelitici, tra sinagoghe e
istituzioni simili; la città era un centro propulsore della cultura yiddish non
solo locale, ma di tutta l’Europa centro-orientale, Durante la II guerra
mondiale quasi l’intera comunità ebraica leopolitana rimase vittima di pogrom
avvenuti in città o di deportazione nei lager di sterminio nazisti. Dopo la
sconfitta dei Tedeschi occupanti, Leopoli fu annessa all’Unione Sovietica;
quasi tutti i polacchi furono espulsi da Leopoli e trasferiti a Breslavia e
nella Slesia, regione ex-tedesca assegnata alla nuova Polonia; in compenso la
città e la regione di Leopoli furono ripopolate con cittadini ucraini e, in
misura minore, con genti russe.
Essendo nato a
Leopoli nel 1895, Giorgio Blumstein era censito in gioventù come cittadino
dell’impero austro-ungarico. Tenuto conto sia del cognome (linguisticamente
tedesco e frequente tra gli ebrei che usavano l’yiddish come loro lingua) sia della
professione (banchiere), è molto probabile che Blumstein appartenesse al ceto
agiato della comunità ebraica di Leopoli.
Non si conoscono le ragioni per cui il leopolitano
Blumstein, sulla soglia dei 50 anni, e in piena seconda guerra mondiale, si
trovasse a Roma. Venne arrestato e poi trucidato alle Ardeatine semplicemente
con l’accusa di essere ebreo; non si sa nulla sulla data e sul luogo del suo
arresto, né dove sia stato detenuto prima di essere ucciso alle Ardeatine. I suoi
resti sono stati ricomposti, identificati e tumulati nel sacello n. 241 del
Mausoleo delle Fosse Ardeatine. Poiché al tempo della sua morte la città di
Leopoli apparteneva ancora alla Polonia, l’ebreo Blumstein ufficialmente viene
di solito presentato e commemorato come cittadino polacco, vittima della Shoah.
DRUCKER Salomone
Figlio di Aronne
e di Scheindl Riechter, era nato l’11-01-1905 a Leopoli, capoluogo della
Galizia, estrema regione orientale dell’impero asburgico d’Austria-Ungheria.
Sui documenti del fascicolo personale di S. Drucker, conservato nell’archivio
dell’associazione ANFIM, possiamo leggere varie informazioni interessanti sul
conto di Salomone e della moglie. Nel fascicolo, Drucker è presentato come
“commerciante pellicciaio”, di religione ebraica; senza
dubbio egli era un uomo molto facoltoso, come più avanti potremo dimostrare. Dopo
il disfacimento dell’impero asburgico (1918) e dopo che Leopoli fu annessa alla
Polonia, Salomone assunse la cittadinanza polacca. Di conseguenza a tempo
debito egli avrebbe dovuto prestare servizio militare nell’esercito del nuovo
Stato di cui era divenuto suddito. Ma Drucker lasciò la Polonia, e lavorando e
dimorando all’estero evitò di fare il prescritto servizio militare. Apprendiamo
inoltre due notizie importanti, che Salomone era simpatizzante del partito
socialista polacco, ed era coniugato con Emma Maria Peter, indicata
semplicemente come casalinga. Nel corso della II guerra mondiale Drucker era
arrivato a Roma e probabilmente continuava a concludere affari come
commerciante di pellicce. Insieme alla moglie Emma abitava in pieno centro
storico, a pochi passi di Largo del Tritone, in un alloggio di via del
Boccaccio 22, interno 9, fornito persino di un telefono.
Il 17 febbraio 1944 il pellicciaio ricevette la “visita”
di un Ufficiale e di un soldato della Wehrmacht tedesca, accompagnati da un
italiano in borghese. I “visitatori” con le rivoltelle spianate perquisirono la
casa ed asportarono 700.000 lire italiane in contanti, 7 sterline oro, una
pelliccia di persiano del valore di 120.000 lire, una penna stilografica d’oro.
Dopo essersene andati, non diedero più notizie della roba asportata. Il
27-02-1944 la polizia tedesca procedette ad arrestarlo, perché lo sospettava di
spionaggio. Al momento dell’arresto Deucker aveva con sé una borsa di cuoio
contenente valute italiane ed estere per un totale di circa novecentomila lire.
Il giorno dopo, 28 febbraio, tre uomini si presentarono in casa Drucker per
un’altra perquisizione; erano due in divisa militare tedesca (un Ufficiale e un
soldato), il terzo in abito borghese. L’Ufficiale si qualificò come Otto Uhlmann
(cognome simile a quello dell’autore del famoso libro L’amico ritrovato) e l’uomo in borghese veniva chiamato Fritz.
(Queste notizie, così dettagliate, sono desunte dalla scheda n. 74 a cura
dell’ANFIM, compilata a mano il 27-06-1944). Lo sventurato Salomone fu detenuto
nel famigerato carcere di via Tasso 155 e fu sottoposto a torture.
Trucidato alle Ardeatine il 24-3-44, i suoi resti furono
ricomposti e identificati nell’estate 1944 dopo la liberazione di Roma. Il
corpo della vittima fu tumulato al sacello n. 53 del Mausoleo delle Ardeatine.
LANDESMAN Boris
Nacque a Odessa nel 1911, giorno 20 gennaio, secondo la
relazione di Attilio Ascarelli, il valente medico legale ebreo romano, che
provvide ad esumare e a identificare i corpi delle vittime delle Fosse Ardeatine.
Viceversa la scheda personale redatta dall’ANFIM riporta come data di nascita
il 2 febbraio 1911.
I genitori si chiamavano Davide Landesman e Ida Rosenstein,
ed erano defunti prima della strage alle Ardeatine. Odessa, grande centro
commerciale e industriale, e soprattutto il principale porto ucraino sul Mar
Nero, ha sempre attirato una folla variegata di mercanti, imprenditori,
marinai, dissidenti politici e religiosi, profughi, ebrei, armeni, greci,
levantini, avventurieri, provenienti da ogni parte degli antichi imperi russo e
ottomano e da vari Stati europei. In quella città, crogiolo di genti diverse
per lingua, per cultura e religione, non destava meraviglia che il figlio di
una famiglia ebrea avesse un tipico nome slavo, Boris, mentre invece i genitori
portavano cognomi di chiara origine germanica, seppure a volte declinati nella
lingua yiddish (in tedesco ‘Landesmann’ significa ‘compatriota’ - ‘Rosenstein’
vuol dire “pietra rosa”). Nella scheda dell’ANFIM il Martire Landesman è
registrato come “commerciante”, arrestato per motivi razziali, mentre si
trovava a Roma. Trucidato alle Ardeatine il 24-03-1944, fu poi identificato dal
dottor Ascarelli; sepolto al sacello n. 281; commemorato come vittima della
Shoah.
REICHER Marian
È stata un’impresa assai difficile ricostruire, seppur in
modo sommario, le dolorose vicende del suddetto Martire e della sua famiglia. Diciamo
subito che soltanto nella primavera del 2020 si è riusciti a identificare i
resti di questa vittima delle Fosse Ardeatine, provando a comparare il DNA di
David Reicher, ora cittadino israeliano, ma nato in Italia nel 1943 e figlio di
un apolide ebreo, con i DNA dei resti delle poche vittime delle Ardeatine non
ancora identificate; il DNA di David corrisponde a quello dell’uomo sepolto nel
sarcofago n. 272. Sicché si può affermare che i resti di Marian Reicher sono
quelli racchiusi nel sacello n. 272 del Mausoleo delle Ardeatine. Grazie alle informazioni
diffuse dai media italiani e israeliani (in particolare dal giornale “Jerusalem
Post”) e alle testimonianze raccontate dal figlio David ho potuto ricostruire
le tappe significative della vita di Marian Reicher. Ho riscontrato che in certi documenti italiani le persone legate a Reicher
sono presentate con due nomi, uno della tradizione ebraica, l’altro di
tradizione cristiana; è probabile che usassero i nomi cristiani quando era
opportuno nascondere l’origine israelitica.
Reicher nacque a Kolomyia il 2 luglio 1910 (secondo
l’ANFIM era nato invece nel 1901). In quegli anni Kolomyia, situata
nell’Ucraina occidentale sulle rive del fiume Prut, apparteneva all’impero
d’Austria- Ungheria. Dopo il disfacimento di quell’impero e tra le due guerre
mondiali la città fu annessa alla Polonia. Nel 1939 metà degli abitanti di
Kolomyia erano ebrei. Nel 1941 circa 500 ebrei della città furono assassinati
con esecuzioni di massa. Nel 1942 quasi 18.000 ebrei di Kolomyia furono
rinchiusi in un ghetto cittadino e poi deportati e sterminati nel campo polacco
di Belzec. In un documento italiano Reicher è presentato col nome Moshe Marian,
ma nelle liste dei Martiri delle Ardeatine è denominato Marian. I suoi genitori
erano gli ebrei Lazzaro (Paolo) Reicher e (Maria) Regina Rosenwasser. Alla fine
degli anni Trenta del Novecento, a Kolomyia, allora città polacca, Marian
Reicher faceva il dentista ed era coniugato con una donna, anch’essa ebrea,
Ethel Drohobrez (nata nel 1911). Alla vigilia della 2ªguerra mondiale, quando
anche in Polonia cominciò a scatenarsi una violenta campagna persecutoria
contro gli ebrei, i coniugi Reicher decisero di scappare dalla Polonia.
Lasciarono Kolomyia e cercarono di trasferirsi in qualche città portuale, da
cui ripartire per raggiungere lidi più sicuri (forse la Palestina, gli USA, il
Canada). È accertato che essi arrivarono a Fiume, la città adriatica allora
governata dagli Italiani. Ma trovandosi l’Italia in stato di guerra e poiché
anche nelle province italiane si cominciava a perseguitare gli ebrei, Marian e
Ethel furono arrestati (novembre 1941) e da lì vennero tradotti in un campo
d’internamento a Enego (provincia di Vicenza). Intanto la signora Ethel era
incinta del primo figlio. Avvicinandosi il giorno del parto, Ethel fu
trasferita nella vicina città di Bassano del Grappa, ove nacque una bimba
(8-01-1942) a cui fu dato il nome italiano Rosetta (in Israele venne poi
chiamata Shoshana). Marian, Ethel e Rosetta restarono in quel campo
d’internamento fino a settembre 1943. Approfittando dello scompiglio che si
diffuse nel Norditalia dopo l’armistizio dell’8 settembre, i Reicher abbandonarono il campo di Enego (17-9-1943) e
cercarono di scendere verso il Centro Sud. Nel mese di ottobre erano arrivati
in Abruzzo, dove si fermarono poiché, nella cittadina di Penne (prov. Pescara)
era venuto alla luce il secondogenito, di nome Daniel; ora in Israele viene
chiamato David. Non sappiamo in quale luogo e in che periodo il dentista
Reicher fu catturato; riconosciuto come apolide ebreo probabilmente fu
rinchiuso insieme ad altri correligionari nel 3° braccio di Regina Coeli a Roma, in attesa di essere
trasferiti nel campo di Fossoli e poi deportati nei lager nazisti. Probabilmente
la moglie Ethel, con Rosetta e Daniel/David (di 3 o 4 mesi), avevano trovato
rifugio in qualche luogo di campagna dell’entroterra adriatico; da lì
proseguirono il loro cammino verso la Puglia ormai liberata. Sostarono per
qualche tempo a Santa Croce di Santa Maria del Bagno (Lecce) dove i militari
alleati e gli amministratori locali salentini stavano allestendo campi di
accoglienza per gli ebrei e i primi profughi sopravvissuti ai lager di
sterminio. Finalmente a marzo del 1945, i tre familiari del Martire Reicher,
imbarcati sulla nave Princess Kathleen, salpata da Taranto, emigrarono in
Palestina.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E DOCUMENTALI:
ANFIM
Associazione Nazionale Famiglie Internati Martiri – sito web Mausoleo Fosse Ardeatine
“Ebrei stranieri internati ad Enego”, del CSID=Centro Studi sull'Internamento e la Deportazione, Vicenza 2022.
“Rivista
calabrese di storia del ’900”, 1, 2021:
1)Tancredi
BENEDICENTI – “Todeskandidat”
2)Paolo PALMA –“I martiri calabresi alle Fosse Ardeatine tra delatori, spie …”
“Il Messaggero” –Roma, 22 aprile 2022.
“The Jerusalem Post”, 8 july 2020, “After 76 years, Israeli discovers fate of father killed by Nazis in Rome”, by Rossella Tercatin.
“The Times of Israel”, 15 august 2020, “After 76 years, victims of Nazi massacre in Italy identified”, by Giovanni Vigna.
Autore: Ing. Vinncenzo Davoli
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