- Intrecciare le 2 Challot
- disporle su una teglia rivestita con carta da forno.
- Lasciare lievitare le trecce nel forno caldo per altri 20 minuti, o fino a quando non saranno di nuovo circa raddoppiate.
- Prelevare le pagnotte dal forno e lasciarle in un luogo privo di correnti d’aria.
- Mescolare l’uovo per la guarnizione in una ciotola con 1 cucchiaio di acqua e un pizzico di sale, poi spennellare le challot con il composto.
- Cospargere le pagnotte con i semi.
- Cuocerle nel forno già caldo a 220° per circa 25 minuti, o comunque finché sono dorate, cambiando la posizione delle trecce nel forno dopo i primi 15 minuti.
- Togliere le Challot dal forno e lasciarle raffreddare completamente su una griglia.
La Challah è sempre preparata il venerdì per essere consumata
di Shabbat, ma anche in occasione delle
feste sacre, escluse le feste pasquali. In
queste occasioni, a tavola sono portate sempre due Challah coperte da un telo
bianco, come ricordo della doppia razione di manna che cadeva dal cielo il venerdì
alla vigilia del sabato e delle feste; manna ricoperta dalla rugiada mattutina,
che Dio elargì agli ebrei bloccati per quarant’anni nel deserto.
Originariamente, e fin quando fu possibile, da questo pane
era prelevata la decima che veniva offerta al sacerdote. Oggi che non c’è più
il Tempio, si preleva comunque un pezzetto dell’impasto che viene messo da
parte, non consumato e bruciato in forno.
La challah è a forma di treccia, pane bianco e soffice di
gusto leggermente dolce, è una delle componenti essenziali del pasto di sabato.
La preparazione di questo pane e il prelevamento dell’offerta dall’impasto,
sono esclusiva incombenza femminile.
Analizzando
i termini così come compaiono nella Bibbia, la parola Challah in
origine si sarebbe allo spessore della
preparazione, tipico degli impasti speciali, da cucinare con più attenzione rispetto
ai comuni pani piatti cotti su pietre o piastre roventi. Al tempo stesso, nel
Libro dei Numeri (15:
18-20) si legge che Challah era
la porzione di pane da offrire ai sacerdoti, i kohanim.
Tale offerta, obbligatoria nella terra di Israele, consisteva in un
ventiquattresimo del composto totale.
Con
la distruzione del Tempio del
70 d.C. i kohanim non avrebbero più avuto un luogo dove
officiare, ma perché l’obbligo non fosse dimenticato, i rabbini imposero che
una parte dall’impasto fosse comunque prelevato dal totale e ne fosse proibito
il consumo, andandola a bruciare sul fuoco o nel forno.
Secondo
la regola, valida ancora oggi, non da tutti i pani andava tolta una parte, ma
solo da quelli preparati con una quantità sufficientemente elevata di farina,
stabilita intorno al chilogrammo di peso. La parte di tributo, dalle dimensioni
minime di un’oliva, andava prelevata dalle donne addette alla panificazione e
buttata sul fuoco o nel forno con una benedizione.
Parte
integrante della tradizione religiosa, anche se con altri nomi e altre forme,
il pane è
sempre stato protagonista della tavola ebraica; ancor di più con la distruzione
del Tempio, infatti, questa, si è trasformata in un santuario in miniatura e le
offerte a Dio si sono trasferite nell’ambiente domestico.
Pertanto
si può considerare che i pani del Sabato rappresentano i dodici pani piatti e rotondi esposti al
Tempio e indicati come pani di presentazione.
Nei
tempi antichi diversi gruppi religiosi continuarono a preparare una dozzina di
piccole pagnotte anche a casa, ma in seguito, dall’Alto Medioevo, i pani casalinghi si ridussero al numero di due,
a simboleggiare la doppia razione di manna inviata il venerdì da Dio agli
israeliti nel deserto. Questi pani, tagliati tradizionalmente
con un coltello presso gli Ashkenaziti e spezzati con le mani dai Sefarditi,
che per tradizione considerano la lama, simbolo di violenza, poco adatta a un
altare, una volta porzionati vanno poi intinti nel sale,
come faceva il Sacerdote nell’offrire i sacrifici al Tempio di Gerusalemme.
Tornando alla Torah e nello specifico al Libro dell’Esodo, i quarant’anni nel
deserto spiegherebbero anche il telo ricamato con cui si è
soliti ricoprire i pani posti sulla tavola, visto che
rappresenterebbe gli strati di rugiada che proteggevano il doppio dono divino.
Per la
preparazione si usa la farina bianca,
questo per onorare la festa, infatti, questo ingrediente caratterizzava gli
impasti destinati alle classi più alte, e quindi più adatto alle celebrazioni,
come ci insegna la storia.
Dall’alto
Medioevo si usò anche l’aggiunta di ingredienti
speciali, in particolare i semini spolverizzati sulla superficie delle
pagnotte presso le comunità sefardite, mentre a ispirare la forma intrecciata
furono gli Ashkenaziti nel XV secolo, un’usanza di antiche tribù tedesche,
riprese dagli ebrei che ne vivevano a stretto contatto. Oltretutto sembra che
un aspetto particolare alle pagnotte, risultasse utile nella praticità, infatti,
visto che al tempo si cuocevano i pani in un forno comunitario,
una forma particolare data dal numero di fili della treccia o dalla sua forma
più o meno allungata e/o arrotondata, permetteva un facile riconoscimento alle
donne che l’avevano realizzata. La forma intrecciata, poi, risulta essere utile
per mantenere il pane morbido più a lungo e cela sincretismi.
La forma
di treccia più comune, nonché la più
semplice da realizzare, con tre strisce di pasta, simboleggerebbe così verità, giustizia e pace ma anche l’unità del popolo
ebraico. Quella più complessa a quattro strisce sarebbe immagine dell’amore, rappresentando
due coppie di braccia, mentre quella a sei, accostata alla sua gemella,
richiamerebbe le dodici tribù di Israele, indicate insieme
ai pani rituali del Tempio, simbolismo anche della Challah a dodici strisce. Se poi la treccia finisce con il congiungersi in un
circolo, sarà perfetta per la festa di Rosh haShanah nel significare
continuità, mentre la forma di scala e quella di mano sono l’ideale per Yom
Kippur. Alle forme già elencate si possono aggiungere le Challot
a forma di chiave per
il primo Shabbat dopo Pesach, il rotolo della Torah per Simchat
Torah e Shavuot, il pesce per
Purim o la Challah a sei capi con un vav, la sesta lettera dell’alfabeto ebraico,
in cima a ricostituire il numero dodici.
L’aggiunta agli ingredienti di olio e di uova all’impasto
di farina bianca acqua e lievito, sarebbe legata a esigenze simboliche e a
calcoli gastronomici. L’olio sarebbe un diretto riferimento a quello del
Tempio, mentre le uova conferirebbero il colore dorato che richiama quello
attribuito alla manna. Per quanto riguarda la nota dolce che caratterizza la Challah
moderna, lo zucchero, altro richiamo al ricordo della manna, si
sarebbe unito agli altri ingredienti solo nei primi anni dell’Ottocento, grazie alla
diffusione degli impianti di raffinazione della barbabietola nell’Europa
orientale.
L’aggiunta di semi, già visti nella tradizione sefardita,
avrebbe una ragione simbolica anche in quella askenazita, nella lingua Yiddhish
i semi di papavero si chiamano mohn, con una pronuncia molto simile al
termine usato per la manna e secondo il commentatore francese medievale Rabbi Shlomo Itzhaki, conosciuto
come Rashi, la manna avrebbe avuto un aspetto simile ai semi di
sesamo; quindi, questi semi la guarnizione ideale per il pane
della festa.
L’antico
termine di Challah, individuato nella Torah, fu usato per la prima volta dal
rabbino e talmudista Israel Isserlein, lo
stesso, avrebbe esteso il nome della porzione sacerdotale all’intero pane di
Shabbat. L’uso del termine da parte del rabbino sarebbe attestato per la prima
volta nel 1488 nella
raccolta halakhica Leket Yosher del suo allievo Joseph ben Moses d’Austria.
Questo non bastò a rendere universale il termine nell’immediato, tanto che il nome arrivò anche nelle regioni più a Est dopo più di un secolo,
dove i pani del sabato erano indicati con diversi e più generici termini. In
seguito, il nome dei pani del sabato, Challah,
si
affermò sempre più in tutto il mondo, divenendo anche simbolo indiscutibile
della cucina ebraica.
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Contributo di:
Vincenza Triolo
Esperta in Storia e Conservazione di B. C.
Studiosa e Ricercatrice
Conservatore dei Beni Arch. ed Ambientali
Tecnico del Rest. ed Architetto