___________________________________
PREMESSA:
Ricevo con grande piacere e pubblico ben volentieri in questo blog, un prezioso ed emozionante regalo per i lettori, un racconto incentrato sulle
festività imminenti ma anche scrigno di tesori legati alla propria identità. Questo regalo è donato a tutti noi da Ariel Arbib, che ringrazio di tutto cuore. Un racconto,
uno spaccato di vita in tempi particolari, ma vissuto con serenità e un profondo
senso di affetto con amore, che lega la famiglia, in
particolare quella ebraica. Questi
racconti, condivisi e divulgati sono finestre aperte di menti ed anime sensibili, che vogliono toccare altre, regalando la possibilità di coglierne l’essenza... ... Quella da conservare, valorizzare e tramandare di generazione in generazione, per l'appunto, Midor Ledor, l'esatto contrario di Yeridat ha - dor (il declino delle generazioni).
Shanà tovà
Buona lettura e pensieri a tutti... !
Vincenza Triolo
___________________________________
Memoria e tradizione nelle festività ebraiche
DI ARIEL ARBIB
Finita
l’Estate, rientravamo a casa tutti di malavoglia dalla lunga vacanza al mare e,
quasi immediatamente dopo, si ricominciava a respirare un’aria frenetica e di
eccitazione in quelle prime settimane di Settembre. Gli
acquisti per la scuola, il nuovo grembiule blu col suo colletto bianco di
celluloide, il fiocco candido di nylon e la cartella, erano le prime cose che
andavano a pesare sul bilancio familiare assieme ad un analogo corredo
scolastico per mia sorella Luisa, all’inizio dell’Autunno. La visita alla
cartoleria sotto casa, era l’appuntamento più atteso, per me e mia sorella.
Entrando, l’odore inconfondibile e accattivante del legno delle matite e della
carta dei libri e dei quaderni, saliva su per le nostre narici come un profumo
suadente e afrodisiaco, facendoci dimenticare che quelli sarebbero diventati
poi gli strumenti amorfi e terribili, con i quali ci saremmo dovuti confrontare
con dettati e tabelline. Mi sono sempre chiesto allora perché al dettato, con
la stessa identica matita, il mio compagno di banco prendesse sempre un bel 10
ed io mai più di un misero 6, o 7…
Due
quaderni a righe e due a quadretti, più un quinto per la “brutta”. Un album da
disegno, gomme da cancellare, temperino e matite colorate dalle punte acuminate
come frecce e soprattutto il ”Sussidiario”, una sorta di libro di tuttologia,
pieno di foto e figurine dove la Storia romana veniva raccontata con didascalie
e disegni a colori che ricordavano molto i fumetti del mitico Intrepido. Questo
però non era l’unico pensiero per i miei genitori alla fine di quegli anni
cinquanta a Roma. Settembre voleva dire soprattutto l’arrivo del Aiyad…le
Feste, con tutti i loro inderogabili e pesanti preparativi. Ogni
anno, questa diveniva una data fatidica per tutta la famiglia, ma soprattutto
per mia madre, Esther Uzzan z’l’ sposata Arbib, da tutti meglio conosciuta e
chiamata familiarmente Thera. Simpatica, grassoccia, estroversa, rassicurante,
adorabilmente sarcastica e quasi sempre sorridente e ammiccante, rappresentava
l’esatto stereotipo della tipica madre ebrea e per di più tripolina, un mix che per noi
figli ha voluto dire soprattutto uno smisurato amore per lei e attenzioni e
coccole infinite per noi. Un amore reciproco che nasceva dal suo smisurato
affetto e dall’orgoglio che provava per tutti noi e per l’esempio e
l’insegnamento che ci elargiva quotidianamente. Ed ancora più profondo ed
imprescindibile era per lei il rispetto per le regole, motivo quest’ultimo per
me, della conseguente comparsa di inevitabili sensi di colpa che, in buona
parte mi porto ancora dietro. Tenera, premurosa, rassicurante, ma nello stesso
tempo determinata e stimolante, si dimostrava sempre pronta ed insostituibile
nell’elargire consigli o prendere decisioni su cosa era meglio per noi…non so
perché, ma ci azzeccava quasi sempre!
Mamma, papà con tre
figli maschi adolescenti ed una bambina di pochi mesi, arrivarono a Roma da
Tripoli nel 1948 (io venni al mondo qualche anno più tardi), senza essersi mai
separati da tutto quel bagaglio indissolubile di tradizioni e di speranze che
ogni Ebreo che lascia forzatamente il proprio paese d’origine per uno nuovo,
porta immancabilmente con sè.
Roma sembrava allora
una città accogliente e serena, con un piede ancora
nel passato ed un altro teso verso un futuro ancora molto incerto. Una città di
burocrati e artigiani, che si sforzava, con quella tipica pazienza sorniona,
tipicamente romana, di rivivere e risollevarsi dai disastri che la guerra aveva
rovinosamente provocato; in un momento decisamente difficile in cui, tante
delle cose indispensabili e necessarie erano ancora rare ed introvabili.
La sensazione che si percepiva in quei primi anni cinquanta tra quelle case
malsane del Vecchio Ghetto e tra i suoi vicoli bui, era una sensazione cupa,
lenta e nervosa; anche le attività religiose e di aggregazione, erano di
conseguenza meste e rallentate.
La sensazione che si percepiva in quei primi anni cinquanta tra quelle case
malsane del Vecchio Ghetto e tra i suoi vicoli bui, era una sensazione cupa,
lenta e nervosa; anche le attività religiose e di aggregazione, erano di
conseguenza meste e rallentate.
Gli Ebrei romani,
decimati dalle razzie nazi-fasciste del 16 Ottobre del 1943 e dalla strage
delle Fosse Ardeatine solo l’anno dopo, distrutti e straziati moralmente, si
sforzavano allora con fatica di rimuovere gli orrori patiti, riprendendo
lentamente le loro abitudini quotidiane e quelle loro antiche tipiche attività
di piccolo commercio nelle quali erano sempre stati abili. Qualche anno prima,
le scuole e le Sinagoghe chiuse dai fascisti, finalmente avevano riaperto i
battenti. Lo Stato d’Israele era da poco nato e questo, faceva riaffiorare
lentamente nell’Ebraismo romano, come una benefica trasfusione, l’orgoglio e la
fiducia che erano stati strappati via con indicibile crudeltà e violenza.
Proprio in quegli anni, un nuovo Capo Rabbino, il Prof. Elio Toaff Z’L’, si
insediava a Roma, raccogliendo un pesante fardello ed un’eredità con un doppio
gravoso compito, quello di riportare Ebraismo, ma soprattutto sorriso e
ottimismo, nel futuro in una Comunità afflitta e devastata. In tale contesto e
con tantissime differenze culturali e religiose a fare da ostacolo, la mia
famiglia si trovò con eguale sofferenza a toccare con mano e a condividere
tutto questo, rimanendo però allo stesso modo, estremamente legata alle proprie
tradizioni di origine e ai propri modi di vivere.
A differenza forse di
altre genie, gli Ebrei tripolini non sanno rinunciare a caricarsi
dietro assieme ai loro bagagli, ovunque siano costretti a stabilirsi, tutti
quegli oggetti, strumenti ed utensili di uso quotidiano, indispensabili a
mantenere vive e immutabili le proprie abitudini quotidiane e culinarie. Queste
ultime soprattutto, assieme alle osservanze religiose, sono state l’amalgama
che ha mantenuto per secoli intatta la loro matrice sanguigna e lasciato una
lunga scia nella Storia ebraica e non solo nel Mediterraneo. Per moltissimi
anni, anche in casa nostra, la presenza familiare di quegli arnesi in cucina,
testimoniava il nostro inscindibile legame verso quella cultura di cui, in
quegli anni francamente non capivo e non ne apprezzavo a fondo tutta la loro
vera essenza, ma che anzi, fondamentalmente mi imbarazzavano perché, mi pareva,
mi rendessero “diverso” agli occhi dei miei amici di allora. A differenza forse di
altre genie, gli Ebrei tripolini non sanno rinunciare a caricarsi
dietro assieme ai loro bagagli, ovunque siano costretti a stabilirsi, tutti
quegli oggetti, strumenti ed utensili di uso quotidiano, indispensabili a
mantenere vive e immutabili le proprie abitudini quotidiane e culinarie. Queste
ultime soprattutto, assieme alle osservanze religiose, sono state l’amalgama che
ha mantenuto per secoli intatta la loro matrice sanguigna e lasciato una lunga
scia nella Storia ebraica e non solo nel Mediterraneo. Per moltissimi anni,
anche in casa nostra, la presenza familiare di quegli arnesi in cucina,
testimoniava il nostro inscindibile legame verso quella cultura di cui, in
quegli anni francamente non capivo e non ne apprezzavo a fondo tutta la loro
vera essenza, ma che anzi, fondamentalmente mi imbarazzavano perché, mi pareva,
mi rendessero “diverso” agli occhi dei miei amici di allora. Setacci, pentole di
rame, mortai, macinini, bracieri di terracotta, ventagli di paglia intrecciata
e tanto altro, ingombravano e riempivano gli armadi, i tavoli ed i cassetti della
cucina. Alcuni di questi, appesi sulle pareti lucide e piastrellate erano
esibiti come stendardi, richiamando costantemente alla mente le nostre origini
ed il Paese da cui provenivamo. La dispensa (sbinsa), poi era la vera
roccaforte di mia madre, il suo “Santa Sanctorum”.
Lì dentro stipava, di tutto. Ogni specie di coloratissime spezie, di essenze e
resine odorose, di incensi, ogni genere di legume secco, frumento, orzo e
farine. Barattoli di vetro e di latta, allineati ordinatamente, racchiudevano
prelibatezze e leccornie di ogni tipo, preparate con amore e metodo antico. Tra
queste, le marmellate d’arance, piccantissimi peperoncini, melanzane e limoni
sott’olio e ancora quelle irrinunciabili, deliziose roschette (Kak), una sorta
di taralli in versione salata, o dolce, onnipresenti in qualsiasi occasione
conviviale e che in me crearono da subito una… dipendenza. Spezie,caffè,
zucchero, thè nero, foglie di menta essiccata, assieme alle mandorle ammiccanti
e alle nocciole salate, facevano compagnia ad arachidi e semi di zucca tostati.
Quando si aprivano le ante di quegli armadi, si veniva assaliti da un mix di
profumi e di fragranze che, assieme all’odore di mia madre, ancora conservo in
un angolo remoto della mia mente. Sebbene a Roma in quel periodo vivessero solo
poche decine di famiglie ebree libiche, ciò non di meno, le tradizioni e le
ricorrenze e gli obblighi della Kasherut (regole alimentari), venivano tenuti
ancor più da conto in casa nostra.
Lì dentro stipava, di tutto. Ogni specie di coloratissime spezie, di essenze e
resine odorose, di incensi, ogni genere di legume secco, frumento, orzo e
farine. Barattoli di vetro e di latta, allineati ordinatamente, racchiudevano
prelibatezze e leccornie di ogni tipo, preparate con amore e metodo antico. Tra
queste, le marmellate d’arance, piccantissimi peperoncini, melanzane e limoni
sott’olio e ancora quelle irrinunciabili, deliziose roschette (Kak), una sorta
di taralli in versione salata, o dolce, onnipresenti in qualsiasi occasione
conviviale e che in me crearono da subito una… dipendenza. Spezie,caffè,
zucchero, thè nero, foglie di menta essiccata, assieme alle mandorle ammiccanti
e alle nocciole salate, facevano compagnia ad arachidi e semi di zucca tostati.
Quando si aprivano le ante di quegli armadi, si veniva assaliti da un mix di
profumi e di fragranze che, assieme all’odore di mia madre, ancora conservo in
un angolo remoto della mia mente. Sebbene a Roma in quel periodo vivessero solo
poche decine di famiglie ebree libiche, ciò non di meno, le tradizioni e le
ricorrenze e gli obblighi della Kasherut (regole alimentari), venivano tenuti
ancor più da conto in casa nostra. Anche in funzione di
questo, la nostra casa era divenuta una sorta di tappa obbligata per
tutti coloro che da Tripoli passavano per la nostra città. Non passava Shabbat
che papà non tornasse a casa dalla Sinagoga con qualche ospite incontrato lì
per caso e non esisteva festività durante la quale non fossero presenti,
intorno alla nostra tavola, insieme a zii e cugini, non meno di una mezza
dozzina e a volte più, graditissimi ospiti, locali o di passaggio. Per la
mancanza di posti a sedere sulla grande tavola, spesso a noi bambini veniva
servito da mangiare sul tavolino basso del salotto, dal quale ascoltavamo con
attenzione le chiacchere ed i racconti dei grandi, quasi sempre nell’idioma
arabo-tripolino. L’occasione era buona
per i miei genitori ed i miei fratelli più grandi, per riuscire ad avere
notizie fresche degli zii, dei cugini e di quegli amici che non avevano ancora
lasciato la Libia; in un periodo in cui il telefono era una rarità e la posta
sottoposta a censura dalle autorità libiche, quello era senz’altro il metodo
più sicuro per tenersi informati sugli avvenimenti di Tripoli e sulla salute
dei propri cari. Molto spesso, alcuni
dei nostri ospiti ricambiavano l’invito portando come dono a mia madre prodotti
originali della Libia, introvabili allora a Roma e che, inesorabilmente
finivano poi tra gli scaffali già ridondanti della sua dispensa.
In una di queste occasioni, per la prima volta in vita mia, mi capitò
di assaggiare il Lagby (latte di palma fermentato), dall’odore forte e
penetrante e dal deciso sapore agro-dolce. Una bevanda che, fin dal primo
assaggio concessomi con riluttanza da mia madre, mi sedusse a tal punto che più
tardi, sgattaiolando di nascosto in cucina, mi riattaccai alla bottiglia
riassaporando generosamente quel dolce nettare a grosse sorsate, abbassandone
così sensibilmente il livello, mentre impietosamente si alzava il tasso
alcoolico nel mio sangue di bambino. Rosh ha Shanà, Il
Capodanno, è la prima delle festività ad arrivare con la prima luna nuova
d’Autunno. Viene considerata una tra le festività più gioiose e allegre del
calendario ebraico. La solennità delle preghiere ed il suono emozionante dello
Shofar in Sinagoga, si contrapponeva in casa, con l’allegria festosa del Seder
(piccoli assaggi di cose dolci, con propiziazioni e benedizioni) che precedeva
la cena. Un’allegorica
alternanza di benedizioni e scongiuri, accompagnano infatti l’assaggio
dolcissimo dei frutti carnosi di fine estate, quali fichi, datteri,
chicchi di melograno profumati con l’acqua di fiori d’arancio, marmellate di
mele cotogne e di zucca e tanto altro; il tutto immerso senza
risparmio, in abbondate e suadente miele e zucchero; propiziando
così abbondanza e dolcezza per tutti con l’inizio del nuovo anno. Ed ecco poi arrivare
l’attesissima cena! Un susseguirsi, quasi
maniacale di piatti succulenti, tipici della tradizione libica,
uscivano caldi ad ondate dalla cucina di mia madre la quale, per intere
giornate ne aveva curata con esperienza e maestria, ma anche con tanta fatica,
la preparazione. L’apoteosi di sapori e di odori che avevano già
riempito la casa ed inondato le scale del condominio fin dal pomeriggio, ora si
materializzavano sotto i nostri occhi sotto forma di grasse leccornie ed
irrinunciabili manicaretti. L’immancabile e tipico Basin (polenta di farina
bianca), annegato in un denso sugo di carne e cipolle, troneggiava in tavola,
tra tanto altro e per il piacere di tutti.
Le chiacchiere ed il gioioso brusio a tavola rallegravano le nostre orecchie
mentre il palato, dopo i tipici e attesissimi dolci mielosi, finiva
gradualmente per appagarsi all’inizio della Birkat ha Mazon, la benedizione del
fine pasto.
Mia sorella ed io, avevamo assistito già da qualche giorno all’inizio di quegli
interminabili preparativi e non ci potevamo rendere conto allora di quanto
sforzo tutto questo comportasse per mio padre, ma soprattutto per mia madre
che, nonostante la fatica dei suoi compiti, non spegneva mai quel suo
immancabile e adorabile ironico sorriso. Da quando, giorni
prima della Vigilia papà arrivava stremato a casa con il tram (l’automobile era
ancora un lontano lusso), carico di borse e pacchi e gli immancabili garofani
bianchi dal mercato di Piazza Vittorio, oppure dall’unica macelleria Kasher, in
Piazza Costaguti nel Vecchio Ghetto, gestita in quegli anni dal
corteggiatissimo signor Angelino Spizzichino, fino a quando la tavola era
pronta ed apparecchiata per il Seder, una serie di pesanti incombenze e
sgradevoli operazioni erano già passate per le mani di mia madre. Come ad
esempio, la ”Kasherizzazione” (salatura e lavaggio rituale) di tutte le carni,
la preparazione anticipata delle due abbondantissime cene e altrettanti pranzi
e Sedarim che la Festa contemplava, la preparazione delle Hallot ( il
pane) cotte nel mitico “forno palestinese”, delle frittate di bieta e di porri
per le Berahot (Benedizioni) del Seder, la zucca fritta, la testa d’agnello e
le marmellate di mele cotogne (avete mai provato a sbucciare una mela cotogna?)
e tanto altro che ora tralascio per pietà verso il lettore. Non passava nemmeno
una settimana dalla fine di questo eccitante tourbillon culinario, che un altro
appuntamento altrettanto solenne, anzi il più solenne, stava per arrivare: lo
Yom Kippur. Dieci giorni esatti
dopo il Capodanno arriva puntuale il giorno dell’Espiazione; poco più di un
giorno intero di digiuno che ogni Ebreo adulto, dopo i tredici anni di età e
dopo il suo Bar/t Mitzvà deve obbligatoriamente osservare.
Benché si tratti appunto di un digiuno, anche questa ricorrenza ha comunque
delle sue precise incombenze legate essenzialmente alla tradizione religiosa,
ma anche a quella culinaria. C’è un prima e un
dopo digiuno da gestire dal punto di vista gastronomico, ma verso di me e mia
sorella, ancora troppo piccoli per entrarvi d’obbligo, c’era per mia madre
anche un durante… Due sono le cose di
questa solenne ricorrenza di qui ho ancora un preciso e nitido ricordo: il
Bulu ed il pollo!!
Il primo è un dolce tipico della tradizione tripolina, a forma di grosso
maritozzo un po’ più compatto, profumato al suo interno da grani di anice e da
chicchi di uva passa, con il quale, assieme ad un caffè caldo, si usa ancora
oggi rompere il digiuno all’interno della Sinagoga alla fine delle
preghiere serali. Il secondo, il
pollo, è ovviamente il noto pennuto di cui, da quegli anni, non mi cibo più
ed ora vi racconto il perché…
Si dice che in ricordo del “capro espiatorio” che il Cohen
Gadol, il Gran Sacerdote, mandava libero a morire tra i sassi del deserto dopo
avergli trasmesse simbolicamente, con l’imposizione delle mani sul capo, le
colpe da espiare del popolo d’Israele, è ancora oggi consuetudine tra gli Ebrei
libici, fare una cosa analoga con un pollo: la cosiddetta Kapparà (l’espiazione).
Ogni capo famiglia acquista quindi un pollo vivo e recita quelle stesse parole
di scongiuro facendolo roteare, tenuto per le zampe, sulle teste dei propri
familiari. Mio padre, ligio alle
nostre tradizioni ovviamente non era da meno. Per l’occasione comprava infatti
un pollo vivo al mercato ed altri già shachtati, macellati cioè, secondo il
rituale ebraico, uno per ogni maschio della famiglia, dei quali ci saremmo
cibati prima e dopo la festività. Quello che si vede e
si trova oggi tra gli scaffali asettici e lindi di un supermercato Casher o no
che sia, riguardo al pollame e le altre carni in genere, era solo fantascienza
immaginarlo in quegl’anni cinquanta.
I polli arrivavano infatti a casa tutti interi, corredati di tutto il loro
piumaggio, della testa crestata e delle loro zampette gialle. Ed era ancora mia
madre a doversi occupare di prenderli… in carico, a cominciare dalla loro
spennatura. La fase successiva
era ripassare più volte il pollo così ”denudato”, sulla fiamma del gas per
eliminarne tutti i parassiti presenti sulla sua pelle, arrivando infine alla
fase terminale, la più…macabra: l’eviscerazione.
Questa operazione, consisteva nell’ infilare una mano all’interno della pancia
aperta del pollo ed estrarne i visceri. Cuore, fegato, stomaco, intestini e
quant’altro presente in quell’ammasso informe di carne sanguinolenta, veniva
delicatamente estratto e riposto con cura, per la fase finale: la
casherizzazione! Indovinate chi eseguiva tutto questo in casa nostra su ben
cinque polli? Mamma Thera ovviamente… Durante le fasi di
quel “massacro”, ad ogni movimento delle mani e delle dita smaltate e ben
curate di mia madre, gli otto bracciali d’oro finemente sbalzellati, tipici
dell’arte orafa libica che mamma portava al polso e che non toglieva mai,
tintinnavano sonoramente tra loro ingentilendo quelle truculente manovre che,
come d’incanto, si trasformavano ai miei occhi di bambino in gesti quasi
naturali e sopportabili. Nonostante tutto, la
mia curiosità e l’ancestrale dedizione alle faccende domestiche di mia sorella
Luisa, ci tenevano entrambi inchiodati al suo fianco ad osservarla, mentre
stoicamente, eseguiva quell’ingrato compito. Intanto però, il
nauseabondo odore che queste operazioni scatenavano nella cucina del nostro
appartamento di Corso Trieste, mi costringeva ogni volta a scappare via di
corsa in balcone per evitare che, a quei miei primi insostenibili conati,
seguisse una vera e propria “liberazione”. Proprio sul quello stesso balcone
dove facevo poi l’inevitabile “incontro ravvicinato” col pollo vivo, che papà
aveva tenuto legato per le zampe in un angolo tra i vasi, in attesa di recitare
sulle nostre teste la Kapparà. Il malcapitato,
attendeva lì ignaro per qualche giorno l’arrivo della sua triste fine, mentre
io tentavo inutilmente di alleviare le sue pene, dandogli da mangiare ogni
tanto qualche mollica di pane bagnato…
Arrivava così inesorabile il giorno fatidico in cui nostro padre, dopo aver
girato per tre volte sulle nostre teste il pennuto, recitando…”zè
Halifatenu, zè Temuratenu, ze Kapparatenu…”(questo è in nostra alternativa;
questo è al nostro posto; questo è la nostra espiazione), me lo affidava per
l’ultima missione: la più terribile!
Dall’altra parte del grande cortile del nostro palazzo, abitava un’anziana e
affabile coppia di tripolini, genitori di alcuni cari amici dei miei. Era lì
che mamma mi mandava, senza un minimo di trattativa, con un compito ben
preciso: Il pollo andava shachtato (sgozzato)! I miei fratelli più
grandi, Lillo, Maurice ed Ever, non ne volevano sapere di quell’ingrato
rituale, probabilmente per averlo già conosciuto e subito anni prima di me.
Così, con le buone o le cattive, camminando in strada a testa bassa, evitando
così i risolini dei passanti, arrivavo col mio pollo “incartato” a testa in giù
con carta di giornale, davanti alla porta di “nonno” Ahmani: lo Shochet
(persona autorizzata alla macellazione rituale).
Introdotto nella loro stanza da bagno col mio volatile, lo Shochet avvicinava
con sicurezza e maestria il suo coltello affilatissimo alla gola dell’animale,
tenendolo per le zampe dentro la vasca da bagno e con due colpi netti…zac, zac,
recideva esofago e trachea. Il pollo ovviamente non stava lì a guardare e
dunque si agitava e starnazzava come un ossesso. Così, con la gola squarciata,
il poverino si dimenava oramai inutilmente e, battendo forsennatamente le ali,
lanciava schizzi di sangue in ogni direzione. D’un tratto però si fermava di
colpo. Tutto era finalmente finito! Il bagno, ridotto
come un campo di battaglia, trasudava sangue, mentre rivoli rossissimi
scendevano segnando le maioliche bianche ed i bordi della vasca. Il grembiule
candido di Rebbi Ahmani, dietro il quale mi ero riparato un po’ per
non vedere e un po’ per non essere investito dagli schizzi, sembrava a cose
fatte, quello di un chirurgo appena uscito da una sala operatoria. Forse, a qualcuno
potrà sembrare una scena comica, ma vi assicuro che per un bambino di otto-nove
anni non c’era proprio niente da ridere. I simpatici coniugi
rimandandomi a casa, mi riconsegnavano così il mio pollo incartato ancora caldo
che, come tradizione vuole, papà avrebbe poi regalato. Nel fare lo stesso
percorso a ritroso col mio cartoccio in mano, osservavo i bordi della carta
intrisi del sangue di quell’animale, oramai con gli occhi chiusi con il quale
avevo giocato fino a poco prima. Ne scorgevo con tristezza la testa, la cresta
esangue ed il becco giallo da cui ancora colava qualche goccia rossa di
sangue. Fu in quel preciso momento probabilmente che mi ripromisi che,
per il futuro, non avrei mai più mangiato un pollo in vita mia. Lo Yom Kippur
arrivava due giorni dopo questo rituale ed al Tempio Spagnolo di Via Catalana,
dove papà aveva già iniziato ad organizzare e a radunare per l’occasione le
poche famiglie libiche che allora risiedevano a Roma, si tornava a rivivere le
stesse atmosfere e ad intonare i canti e le preghiere di quel Minagh
(tradizione) libico, che papà, con tanta forza e pazienza, ha fatto in modo di
non perdere mai e di tramandarci con gran rispetto. Ancora oggi, a
distanza di più di settanta anni dal suo inizio, questa tradizione è mantenuta
viva e immutata dai suoi figli, nel sacro ricordo di coloro che in tutti
questi anni vi hanno preso parte. Dopo ventisei ore di
digiuno in cui ci si astiene dal mangiare, ma anche dal bere qualsiasi bevanda,
arriva il momento attesissimo del suono dello Shofar, che dopo la preghiera
della sera sancisce definitivamente la fine del digiuno.
Poco prima, la Berachà di Neilà (Benedizione del
vespro) ci aveva visti tutti riuniti e stretti tra noi, genitori e figli, sotto
il grande Tallet di seta (manto di preghiera) di mio padre, mentre assieme al
Cohen ripeteva lentamente le parole sacre della Benedizione. Lì sotto si
riusciva a percepire, dai visi tirati e pallidi per il digiuno, chi di noi
stesse resistendo meglio o peggio a quella dura astinenza. Mia sorella ed io,
esonerati da quell’obbligo per la nostra giovane età, eravamo i più paonazzi ed
irrequieti di tutti, anche grazie all’enorme quantità di Bulu, roschette salate
e biscotti, che avevamo già ingurgitato per tutto il giorno. Mamma infatti,
portava sempre con sé in Sinagoga, un fagotto di vivande e liquidi con cui
tenere a bada il nostro appetito e per confortare poi gli adulti alla fine del
digiuno. La lunga giornata
trascorreva per noi bambini più che altro all’esterno nei giardini del Tempio, dove
assieme ad altri vivacissimi coetanei, organizzavamo i nostri giochi e le
nostre scorribande tra la ghiaia e le aiuole, maltrattando così i vestiti nuovi
comprati per l’occasione. Quando molto spesso i
nostri schiamazzi arrivavano in Sinagoga attraverso le enormi finestre,
disturbando i silenzi delle lunghe Amidot (preghiere che si recitano in piedi
ed in silenzio), qualche adulto arrivava puntuale con il dito indice sulle
labbra e la faccia contrita ad interrompere le nostre esuberanze. La sera si tornava a
casa stanchi e provati, noi bambini per le corse frenetiche fatte su e giù per
le scale del Tempio durante tutto il giorno, gli adulti, per il lungo digiuno
appena terminato. La dolcissima
limonata, profumata ai fiori d’arancio, anticipava la cena
preparata il giorno prima e per nostra madre un’altra fatica era finalmente
oramai alle spalle. A poco meno di una
settimana, arrivava anche Sukkot, la festa delle Capanne. Otto
giorni di celebrazioni e banchetti che richiedevano ancora tutta la maestria e
la dedizione in cucina di nostra madre la quale non trascurava mai di
assecondare i gusti ed i desideri di ognuno di noi, soprattutto quelli di mio
padre e di mio fratello Lillo, il behor (primogenito). Il famoso "Bulu" fatto
in casa faceva di nuovo la sua comparsa quando mamma, portandoci, come
tradizione vuole, a sedere sotto la Sukkà (capanna) del Tempio Maggiore, per
trascorrervi qualche minuto in serenità, ce ne dava da mangiare ancora qualche
fetta. I succosi grappoli d’uva e i melograni appesi come addobbi sul soffitto
e sulle pareti, erano le prime cose che rubavano la mia attenzione ed a stento
venivo trattenuto dallo staccarne qualcuno. Con Simchàt Torà, l’ultima
delle ricorrenze, si chiude il mese di Tishrì e con esso la fine del Aiyad, le
Feste. Una sorta di malinconia coglieva un po’ tutti nel riprendere il ritmo
normale delle giornate lavorative e per me della scuola. Per mia madre la fine
delle Feste suscitava al contrario, un profondo senso di sollievo e di
soddisfazione. Spesso la sentivamo
ripetere, dopo un grosso sospiro, che “tutto quello” fortunatamente si ripeteva
solo una volta all’anno… L’avvento del boom
economico degli anni sessanta, cambiò solo in parte per mamma le sue abitudini
in cucina. I tanti elettrodomestici della nuova era tecnologica, avevano fatto
sparire molti di quegli attrezzi obsoleti che ora arrugginivano in cantina. Il
nuovo Frigidaire troneggiava al posto della vecchia ghiacciaia e nella nostra
dispensa, facevano la loro prima comparsa contenitori fatti di un nuovo
materiale: la Plastica! Il Moderno avanzava
inarrestabile e ben accolto, ma a casa, i gesti antichi ed il fascino immutato
delle nostre tradizioni rimanevano fermi nella loro seduzione e nella loro
genuinità, rallegrati per di più in quegli anni, dall’arrivo dei primi
adoratissimi nipoti che, proprio allora iniziavano a fare le prime festose
comparse in casa nostra. Le Feste e mia madre sono state, per tanti anni della mia vita, un
binomio inscindibile; una garanzia di perfezione, di continuità e di rispetto
delle regole, che ha segnato per sempre il mio essere marito e padre, senza mai
dimenticare di essere ebreo. Grazie ad intere e
meravigliose generazioni di donne e madri come lei, si sono mantenute vive e
preservate le nostre usanze, esattamente come per secoli si sono svolte. Gli
esodi, gli abbandoni, i pericoli ed i lutti subiti per generazioni, non hanno
mai minimamente scalfito né la tempra, né il coraggio in persone come loro,
nate ed educate nell’amore per la famiglia e vissute per assecondarne le
esigenze e per goderne infine i frutti.
Donne molto spesso semplici, genuine, non di rado superstiziose, ma fortemente
legate alla propria Fede ed alle proprie radici. Ciascuna munita di
quell’innato naturale istinto e senso del dovere di madri e di mogli, che le ha
rese instancabili ed indispensabili depositarie del nostro passato e garanti
del nostro futuro. Per loro ho scritto
ed a loro è dedicato questo mio racconto. _______________ NOTE: Prima di inviare a me questo pezzo Ariel Arbib ha pubblicato in un altro sito, si rimanda anche alla pubblicazione precedente attraverso il seguente link:
 | Autore Ariel Arbib |
Copyright _ ©: Ariel ArbibTutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo blog, che siano immagini o testi di articoli, studio, ricerca e pubblicazioni, può essere riprodotta, utilizzata o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo tecnologico senza previa autorizzazione secondo le normative vigenti e quindi dagli autori. UN USO IMPROPRIO DEI DATI RIPORTATI IN QUESTO BLOG E' PERSEGUIBILE DALLA LEGGE 22 APRILE 1941, N. 633 (PROTEZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE E DI ALTRI DIRITTI CONNESSI AL SUO ESERCIZIO) E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI. Jewish Calabria – Cultura e Retaggio Ebraico è ben lieta di accogliere eventuali commenti e/o contributi che potrete inviare al seguente indirizzo di posta elettronica: jewishcalabria@gmail.comLo stesso indirizzo e – mail può essere utilizzato per contattare il Team Jewish Calabria – Cultura e Retaggio Ebraico.
|